Ecco. Anche se abbiam fatto di tutto, ottemperando ad una raccomandazione di Domenico Luciani, per lasciarlo da parte, sul paesaggio siam cascati, direi senza volerlo ma per forza di cose: giacché, se è pur vero che il giardino non è paesaggio, è non meno vero che, dal paesaggio, il giardino, allorché se ne impalca l’idea, non può prescindere. «I paesaggi – afferma Schama – sono cultura prima di essere natura; sono costruzioni dell’immaginazione proiettate sulla selva, sull’acqua, e sulla roccia [...]. Occorre però anche riconoscere – prosegue Schama – che una volta che una certa idea di paesaggio, di un mito, di una visione si è stabilita in un certo luogo, essa acquista una capacità particolare di confondere le categorie, di rendere le metafore più reali dei loro referenti; di trasformarsi, di fatto, in una parte del quadro». Il ragionamento dello Studioso s’incentra, e si avvolge, sul De Germania di Tacito, convocando il confronto tra Varo e Arminio con la sacralizzazione della foresta, sede della divinità primigenia, da parte di quest’ultimo: e, del rischio di un simile passaggio, Schama è ben consapevole allorché ne addita le strumentalizzazioni aberranti da parte degli ideologi del Nazismo, emblematizzate dal motto Blut und Boden – sangue e suolo – che si vuol essere stato forgiato dal ministro dell’agricoltura di Hitler, Rudolf Darré (e noi potremmo rammemorare più sbracate e buontempone – l’assalto al campanile di San Marco anziché alle nubi corrusche del Walhalla –, ancorché insolenti, conseguenze, impantanate nella mitizzazione abusiva di sorgive acque padane...). «Il vero problema – conclude Schama – consiste nel decidere se sia possibile prendere il mito sul serio nei suoi termini stessi, rispettare la sua coerenza e complessità senza farsi moralmente accecare dalla sua forza poetica». Ma «non prendere il mito sul serio in una cultura disincantata come la nostra, significherebbe di fatto impoverire la nostra comprensione del mondo che abbiamo in comune»: e questo, a me pare, è il punto sostanziale, giacché, ad inverarlo, il mito, depositato e custodito in un paesaggio, nella forma di un luogo è il gesto creativo della nostra immaginazione. E il giardino è (può essere) luogo, dunque, indissolubilmente correlato, non tanto al paesaggio naturale come ambiente insignificante, ma al paesaggio mitizzato da una memoria culturale. La filosofia, accanitamente propugnata dalla giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino – e sulla quale, a buon diritto, Domenico Luciani non manca di insistere con ostinazione – scaturisce da codesta convinzione, che è venuta consolidandosi e facendosi imperterrita negli anni: nell’esito del 2004, è da una brughiera, mitizzata dalla memoria delle lotte e della diuturna fatica dei contadini, che vien fatto prorompere il segno, magico e commovente, che connota il luogo cui il premio è stato assegnato. Non sto divagando: sebbene m’avveda che, ad ogni passo, corra il rischio di farlo, e di partir – come si suol dire – per la tangente. Torniamo, ad ogni buon conto, per un attimo, indietro, risalendo dallo «schedario dei ricordi» di Zumthor, che si fa ''paesaggio dell’anima'' come dimensione della memoria, o di una nostalgia, al suo riporsi e difendersi in un recinto che può esser tante cose. Un chiostro, un cortiletto, una terrazza, ecc.: anche un segmento di muro su cui si profila la sagoma di una porta rischiosa. E, tuttavia, non è spazio – dall’etimo latino spatium (collegabile, forse, avverte Giacomo Devoto, con patére: essere manifesto) – il quale designa, siccome precisa l’Amica gentile Carmen Añón in un saggio mirabile che ha avuto la generosità di dedicarmi, il «contenitore di un contenuto» ovvero, giusta Paul Zumthor, un «vuoto da riempire», oppure, e meglio, «l’intervallo cronologico o topografico [ma io direi cronologico-topografico] che separa due punti di riferimento». È viceversa e appunto, luogo – dall’etimo latino locus, privo di connessioni etimologiche attendibili –, la cui valenza è eminentemente temporale ed emozionale. Se il luogo è inseparabile dalla mitizzazione nella realtà naturale di un «momento d’origine, d’incontro, saturo di memoria» sacra, eroica, è «produttore di meraviglie» in quanto creato da un avvenimento sollecitato dall’immaginazione, e sia pur in un preciso contesto di storia individuale e/o collettiva, e parla, anzitutto, all’immaginazione.