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la Fondazione per

Il giardino nel nostro tempo, nel nostro mondo

di Lionello Puppi


 

Orbene. Riprendiamo a parlar di giardino («nel nostro tempo, nel nostro mondo»), anche se, dopo il fuoco d’artificio di riflessioni, di proposizioni, di provocazioni – e fuoco non effimero, perché i suoi lampi mi e ci son entrati dentro, imprimendovisi indelebilmente –: dopo tanto fuoco luminoso, meglio sarebbe per me raccogliere, ed applicare, l’ammonimento saggio il quale avverte che il silenzio è d’oro, e, quindi, tornar a ringraziare, e tacere. Temo, però, che mi tocchi accantonarlo, quel monito, e parlare: solo augurandomi che mal eccessivo non me ne incolga, quantunque, e alla fin dei conti, da intemperante qual sono, nei meandri del giardino son andato avventurandomi per tempo, qualche responsabilità me la son presa e, dunque, ben mi sta: anzi, peggio per me.
Comincerò, allora, rispondendo ad una domanda, più che implicita, adombrata, nello sbozzo di canovaccio per la discussione tracciato dal nostro dominus impareggiabile, Domenico Luciani. Quando, come, qualmente, mi sia accaduto di cacciarmi nel pasticcio. In verità, non credo che ciò sia avvenuto rispondendo ad una vocazione innata, o ad una premonizione lontana, sebbene debba ammettere di aver sempre portato, nitida nei miei ricordi, l’impressione indecifrabile, inquietante e rasserenante insieme, quando i miei, nel giorno dei morti (stavamo a Bardonecchia, nel borgo superiore, aggrappato ai piedi della cortina rocciosa delle Alpi occidentali, ma, dalla finestra della mia cameretta vedevo la distesa verde di un prato che s’imbiancava di narcisi al sopravvenir della primavera), mi portavano a visitare – percorso un breve stradone bordato da alti cipressi, che aveva il nome, per me bambino, ammaliante e arcano, di viale delle Rimembranze – il piccolo cimitero. E vedevo gente assorta comporre, con gesti delicati, arabeschi di fiori sulle parsimoniose elevazioni di sepolture di terra, che a me sembravano aiuole misteriose.
Il giardino lo scoprii molto più tardi, e come un’assenza: allorché, studiando le ville di Palladio – e quelle prima, e quelle dopo Palladio –, continuavo ad avvertire l’apprensione, l’impazienza di qualcosa – di un complemento necessario, che non c’era – che collegasse, per dir così, la mole architettonica, che sentivo pertanto come isolata e sofferente per un’amputazione intervenuta, al distendersi del paesaggio agrario. Presagivo una presenza, consumata dal tempo, pressoché invisibile, della cui realtà mi facevano sicuro, però, fantasmi di statue, d’alberi, di fossi, di parterres, di aiuole. La cartografia e le antiche mappe fornivano ragioni alla mia ansia. Il giardino entrò così nei miei corsi e seminari all’università, e anch’io – come Massimo Venturi Ferriolo – diventai frivolo e stravagante agli occhi dei più tra gli storici dell’arte, e mai avrei vinto un concorso a cattedra, se, astutamente, non l’avessi già vinto prima; con la benedizione del mio Maestro, Sergio Bettini, fu allora che presi a frequentare Argan, Assunto e il caro, indimenticabile Eugenio Battisti, che mi volle con sé a Washington per un convegno miliare su codesto aspetto della storia dell’arte, e dove ebbi il dono, e il privilegio, dell’incontro, a Dumbarton Oaks, con David Coffin, e con Betty McDougall, affettuosamente evocati dianzi da Margherita Azzi Visentini, e da poco perduti.

 

 

naviga nelle pagine delle giornate di studio:

 

Intervento conclusivo di Lionello Puppi alle giornate di studio sul paesaggio 2004, prima edizione,
Treviso, sabato 7 febbraio 2004.

 
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