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la Fondazione per

Il giardino nel nostro tempo, nel nostro mondo

di Lionello Puppi


Ho, prima, accennato che, impostando le nostre due giornate di studio, Domenico Luciani aveva affidato a chi sarebbe intervenuto una sorta di canovaccio: che era una sequenza di quesiti provocatori. Tenterò più avanti di agganciarne qualcun altro, per risposte problematiche e aperte, ma, per arrivarci, vorrei muovere dall’ultima domanda ch’egli poneva: che, provocazione per provocazione, accolgo semplificata nel suo dettato, ma in realtà amplificata. A un di presso: «quale potrebbe essere un’antologia ideale di giardini?». Cominciamo: e sbaglierebbe chi, sorridendo e allargando le braccia, avesse pensato che avrei aperto la lista con il prodigio dei giardini dell’Alhambra e del Generalife, sfidanti, dalla gran rupe rossastra, la candida maestà della Sierra Nevada, e riguardanti in basso la folta distesa urbana di Granada, mia seconda patria (la terza è Montevideo). Infatti, in primo luogo porrei un giardino che mi capitò di incontrare in una ghost town – una città fantasma – nel deserto di Atacama, il quale tanta parte accampa del Norte cileno. È il deserto – assicura il mio amico Luis Sepúlveda (che se ne intende) – più crudele e spietato del pianeta per le sue micidiali escursioni di temperatura tra il giorno e la notte, con la sabbia rappresa e compressa sino a farsi la crosta durissima della sua giallastra distesa senza orizzonti, celante il tesoro del salnitro, che vide l’accorrere, tra Otto e Novecento, di gente disperata e proterva da ogni parte del mondo, la quale per pochi soldi – che sperperava in colossali bevute e innominabili lussurie il giorno stesso della paga – era disposta a sopportare la fatica disumana di scavarlo (ma aveva dignità, ed era pronta a sfidare la brutalità sanguinaria dei carabineros inviati dal dittatore militare di turno). Il deserto si coprì della ragnatela di binari ferroviari, della ferrea mostruosità di officine apocalittiche; di piccole città, la cui cattedrale e le cui chiese erano i bordelli e le taverne. E fu l’epopea grandiosa e tenera narrata da Letailler. Poi, il salnitro non contò più nulla, e il deserto tornò alla sua solitudine di fuoco e di gelo, imprigionando e inghiottendo i relitti di quell’avventura e del suo naufragio sotto la sua crosta secca e amara. Ma qualcuno, veramente, rimaneva, che vi era stato da sempre – indios aymara o quechoa –, o vi giungeva, portando lassù la sua miseria senza nome, ed occupando ciò che sopravviveva di case, di bettole, di lupanari; e di cortili. Fu in uno di questi che m’accadde di vedere il giardino più straordinario che mai fosse apparso al mio sguardo: era fatto di fiori d’ogni colore e d’ogni misura, fantasiosamente disposti e graziosamente oscillanti nel vento rovente: fiori di carta, attorcigliati a fil di ferro, e li avvertii come la sfida più orgogliosa alla perfidia feroce della Natura inospitale, e il massimo d’artifizio, quasi una sorta di umana nemesi del ciclico sacrificio della vegetazione segreta, e nascosta sotto il ruvido ed aspro mantello del deserto, che ne esce fuori nella sola notte di pioggia di Atacama, il 31 marzo di ogni anno; migliaia di fioricini vermigli che, sbocciando, fanno avvampare la superficie ostile – un lungo brivido vellutato – per spegnersi e sparire in poche ore.

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Intervento conclusivo di Lionello Puppi alle giornate di studio sul paesaggio 2004, prima edizione,
Treviso, sabato 7 febbraio 2004.

 
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