Il giardino nel nostro tempo, nel nostro mondo

di Lionello Puppi


Anzitutto, un grazie, che non appartiene ai rituali obbligati delle cerimonie insipide, ma viene dal profondo del cuore.
Alla Fondazione Benetton Studi Ricerche e, per essa, all’Amico Domenico Luciani – che ne è l’anima, generosa instancabile possente, accesa da una passione che è temperata dalle doti rare della pazienza e dell’ironia – per aver voluto che a me fossero dedicate queste due indimenticabili giornate di studio e di riflessione sul tema del giardino, inusitato e perciò di vera attualità nel crepuscolo, che incombe (ma gli impediremo d’attingere la tenebra letale della notte), della ragione e dell’anima. Ma, anche, desidero dir grazie a Domenico (sodale e complice di tante battaglie intellettuali e civili) per avermi dato il conforto di accettare il dono modesto – ma è il solo autentico che uno studioso possa fare – delle carte caotiche del mio archivio di lavoro, e per aver affidato quei materiali torrenziali ed intemperanti alle cure competenti e squisite di una giovane bibliotecaria, Francesca Ghersetti, le cui attenzioni premurose mi hanno toccato e commosso. E grazie, quindi, ai Colleghi incomparabili, e alla lor volta complici, con Domenico e con me nella giuria del Premio Carlo Scarpa – Carmen Añón, Monique Mosser, Sven-Ingvar Andersson, Ippolito Pizzetti – per le testimonianze suggestive e stimolanti che hanno voluto portare: accomunandoli agli altri Colleghi che, del pari, son convenuti qui ad arrecare esposizioni non meno significative: ad Anne Whiston Spirn, a Massimo Venturi Ferriolo, a Hervé Brunon; e alla dilettissima Margherita Azzi Visentini, con particolar slancio per i ricordi che ha evocato e perché al suo maestro ha dato la maggior soddisfazione che un maestro possa attendersi da un allievo: di essere diventata più brava di lui. Ma la ringrazio pure, Margherita, per il coraggio delle denunce che ha sporto e il cui peso dovrà gravare come un macigno sulla coscienza di chi tanti delitti irreparabili commette per la fame dell’oro. Se pur è un fatto che «perdér es cuestion de método» – come qualcuno ha detto – e ci siamo abituati a non vincere più, almeno questo ci resta: di dare ostinatamente e interminabilmente fastidio.
Un grazie, alfine, a tutti quanti son intervenuti a queste giornate (e vedo tanti altri Amici, e brillanti Allievi carissimi) a dispetto di nebbie e intemperie, rispondendo solo all’urgenza di un sentimento invincibile di devozione ai diritti della cultura (come i Pagani, avrebbe detto l’indimenticabile Giulio Carlo Argan, che riparavano nei villaggi remoti per evocare gli dei, cacciati dai templi abbattuti, nel racconto degli antichi miti), e non già obbedendo alla grancassa assordante dell’invito di media addomesticati o alla tentazione servile di esibirsi al cospetto delle cosiddette Autorità d’ogni risma e paludamento – politiche, burocratiche, militari, accademiche –, che, quando han sentore di impegno civile, vero, incontaminato e libero, ne fuggono il dialogo socratico come la peste bubbonica e, infatti e grazie a Dio, non ci hanno inflitto, affliggendoci, le liturgie vacue ed insulse, inseparabili dalla loro presenza, accigliata ma compiaciuta della sua ridondanza.

 

 

 

Orbene. Riprendiamo a parlar di giardino («nel nostro tempo, nel nostro mondo»), anche se, dopo il fuoco d’artificio di riflessioni, di proposizioni, di provocazioni – e fuoco non effimero, perché i suoi lampi mi e ci son entrati dentro, imprimendovisi indelebilmente –: dopo tanto fuoco luminoso, meglio sarebbe per me raccogliere, ed applicare, l’ammonimento saggio il quale avverte che il silenzio è d’oro, e, quindi, tornar a ringraziare, e tacere. Temo, però, che mi tocchi accantonarlo, quel monito, e parlare: solo augurandomi che mal eccessivo non me ne incolga, quantunque, e alla fin dei conti, da intemperante qual sono, nei meandri del giardino son andato avventurandomi per tempo, qualche responsabilità me la son presa e, dunque, ben mi sta: anzi, peggio per me.
Comincerò, allora, rispondendo ad una domanda, più che implicita, adombrata, nello sbozzo di canovaccio per la discussione tracciato dal nostro dominus impareggiabile, Domenico Luciani. Quando, come, qualmente, mi sia accaduto di cacciarmi nel pasticcio. In verità, non credo che ciò sia avvenuto rispondendo ad una vocazione innata, o ad una premonizione lontana, sebbene debba ammettere di aver sempre portato, nitida nei miei ricordi, l’impressione indecifrabile, inquietante e rasserenante insieme, quando i miei, nel giorno dei morti (stavamo a Bardonecchia, nel borgo superiore, aggrappato ai piedi della cortina rocciosa delle Alpi occidentali, ma, dalla finestra della mia cameretta vedevo la distesa verde di un prato che s’imbiancava di narcisi al sopravvenir della primavera), mi portavano a visitare – percorso un breve stradone bordato da alti cipressi, che aveva il nome, per me bambino, ammaliante e arcano, di viale delle Rimembranze – il piccolo cimitero. E vedevo gente assorta comporre, con gesti delicati, arabeschi di fiori sulle parsimoniose elevazioni di sepolture di terra, che a me sembravano aiuole misteriose.
Il giardino lo scoprii molto più tardi, e come un’assenza: allorché, studiando le ville di Palladio – e quelle prima, e quelle dopo Palladio –, continuavo ad avvertire l’apprensione, l’impazienza di qualcosa – di un complemento necessario, che non c’era – che collegasse, per dir così, la mole architettonica, che sentivo pertanto come isolata e sofferente per un’amputazione intervenuta, al distendersi del paesaggio agrario. Presagivo una presenza, consumata dal tempo, pressoché invisibile, della cui realtà mi facevano sicuro, però, fantasmi di statue, d’alberi, di fossi, di parterres, di aiuole. La cartografia e le antiche mappe fornivano ragioni alla mia ansia. Il giardino entrò così nei miei corsi e seminari all’università, e anch’io – come Massimo Venturi Ferriolo – diventai frivolo e stravagante agli occhi dei più tra gli storici dell’arte, e mai avrei vinto un concorso a cattedra, se, astutamente, non l’avessi già vinto prima; con la benedizione del mio Maestro, Sergio Bettini, fu allora che presi a frequentare Argan, Assunto e il caro, indimenticabile Eugenio Battisti, che mi volle con sé a Washington per un convegno miliare su codesto aspetto della storia dell’arte, e dove ebbi il dono, e il privilegio, dell’incontro, a Dumbarton Oaks, con David Coffin, e con Betty McDougall, affettuosamente evocati dianzi da Margherita Azzi Visentini, e da poco perduti.

 

 

Ho, prima, accennato che, impostando le nostre due giornate di studio, Domenico Luciani aveva affidato a chi sarebbe intervenuto una sorta di canovaccio: che era una sequenza di quesiti provocatori. Tenterò più avanti di agganciarne qualcun altro, per risposte problematiche e aperte, ma, per arrivarci, vorrei muovere dall’ultima domanda ch’egli poneva: che, provocazione per provocazione, accolgo semplificata nel suo dettato, ma in realtà amplificata. A un di presso: «quale potrebbe essere un’antologia ideale di giardini?». Cominciamo: e sbaglierebbe chi, sorridendo e allargando le braccia, avesse pensato che avrei aperto la lista con il prodigio dei giardini dell’Alhambra e del Generalife, sfidanti, dalla gran rupe rossastra, la candida maestà della Sierra Nevada, e riguardanti in basso la folta distesa urbana di Granada, mia seconda patria (la terza è Montevideo). Infatti, in primo luogo porrei un giardino che mi capitò di incontrare in una ghost town – una città fantasma – nel deserto di Atacama, il quale tanta parte accampa del Norte cileno. È il deserto – assicura il mio amico Luis Sepúlveda (che se ne intende) – più crudele e spietato del pianeta per le sue micidiali escursioni di temperatura tra il giorno e la notte, con la sabbia rappresa e compressa sino a farsi la crosta durissima della sua giallastra distesa senza orizzonti, celante il tesoro del salnitro, che vide l’accorrere, tra Otto e Novecento, di gente disperata e proterva da ogni parte del mondo, la quale per pochi soldi – che sperperava in colossali bevute e innominabili lussurie il giorno stesso della paga – era disposta a sopportare la fatica disumana di scavarlo (ma aveva dignità, ed era pronta a sfidare la brutalità sanguinaria dei carabineros inviati dal dittatore militare di turno). Il deserto si coprì della ragnatela di binari ferroviari, della ferrea mostruosità di officine apocalittiche; di piccole città, la cui cattedrale e le cui chiese erano i bordelli e le taverne. E fu l’epopea grandiosa e tenera narrata da Letailler. Poi, il salnitro non contò più nulla, e il deserto tornò alla sua solitudine di fuoco e di gelo, imprigionando e inghiottendo i relitti di quell’avventura e del suo naufragio sotto la sua crosta secca e amara. Ma qualcuno, veramente, rimaneva, che vi era stato da sempre – indios aymara o quechoa –, o vi giungeva, portando lassù la sua miseria senza nome, ed occupando ciò che sopravviveva di case, di bettole, di lupanari; e di cortili. Fu in uno di questi che m’accadde di vedere il giardino più straordinario che mai fosse apparso al mio sguardo: era fatto di fiori d’ogni colore e d’ogni misura, fantasiosamente disposti e graziosamente oscillanti nel vento rovente: fiori di carta, attorcigliati a fil di ferro, e li avvertii come la sfida più orgogliosa alla perfidia feroce della Natura inospitale, e il massimo d’artifizio, quasi una sorta di umana nemesi del ciclico sacrificio della vegetazione segreta, e nascosta sotto il ruvido ed aspro mantello del deserto, che ne esce fuori nella sola notte di pioggia di Atacama, il 31 marzo di ogni anno; migliaia di fioricini vermigli che, sbocciando, fanno avvampare la superficie ostile – un lungo brivido vellutato – per spegnersi e sparire in poche ore.

Nella mia intemperante antologia, non esiterei a convocare, poi, i giardinetti di arboscelli affaticati e di piantine di coca benefica per sopportar la rarefazione dell’aria nelle altitudini vertiginose, e bastoncini di incensi fumiganti, profumi a Pacha Mama, la Madre Terra, entro recinti marcati da muriccioli di lucide pietre di granito a scandir gli spazi tra le casupole di fango essiccato e di lamiere ricoperte di calce, ai quattromila metri del villaggio andino di Tigua, sullo sfondo dei coni innevati dei vulcani; e li guarda un lama paziente, e li sorveglia il volo maestoso ed enigmatico di un condor. Ma senza lama, condor, vulcani non sarebbero quei giardini.
Subito di seguito, inserirei il giardino – “hortus conclusus” – in cui mi inoltrai, un mattino gelato, entro il chiostro di un monastero di donne a Suzdal, nel cuore profondo dalla Santa Madre Russia (la Ru’s dell’epopea di Igor e della nostalgia di Esenin); due filari incrociati di betulle i cui rami l’algore aveva rivestito di una pelle trasparente e luccicante di ghiaccio; e tornai a quel giardino, nel meriggio tiepido, ma, sciolto quel velo fragile dal calore del sole, era un altro giardino. M’avvedo, però, a questo punto, che il mio slancio volonteroso rischia di somigliar alla fatica inutile di Sisifo: non solo il giardino vive in un paesaggio, ma puranco, come la musica e lo spettacolo teatrale (non lo constatava Battisti nella citazione accortamente prodotta da Luciani?), nel tempo; è evento mutevole, proteiforme, instabile, è forma inafferrabile, è il fiume di Eraclito l’Oscuro.
Esiste – insomma – il giardino?
Quello che io vedo sbocciare agli inviti del sole di primavera non è lo stesso che avevo guardato nel freddo dei rigori invernali; quello lussureggiante, verde e multicolore, che splende ai bagliori dell’estate, non è la misura dorata ma già affaticata entro cui cominciano a depositarsi brine autunnali. Lo stesso giardino diventa un altro quando lo investono la tempesta, e sobbalza e si frantuma al lampo delle folgori, e gli scrosci della pioggia, ed è un altro ancora quando lo avvolge la nebbia, e un altro quando lo copre la neve. I giardini che abbiamo ammirato nelle diapositive magiche dei testimoni che si son succeduti in questi due giorni (o che possiamo ammirare nelle fotografie sontuose che illustrano una pubblicistica ch’è diventata, diciamolo, troppo di moda), ove ci prendessimo la briga di andare a visitarli oggi – adesso –, alla nostra percezione, al nostro concreto experiri, si presenterebbero come un’altra cosa: e, forse, altra cosa eran già divenuti subito dopo lo scatto dell’obiettivo fotografico.
Esiste, dunque, ripeto, il giardino?
Esistono – certo – impianti fragili e friabili di tipologie classificabili, ci son memorie che ci consentono identificazioni e ci permettono persino di attrezzare scienze, tecniche e filologie specifiche, nonché di scrivere la storia del giardino nei secoli e nei luoghi. Esiste, ovviamente, la progettazione di giardini, rivendicata dall’arroganza degli architetti che la contendono agli urbanisti (e spetta viceversa a chi sappia incarnare l’Allison di Poe), e ne consegue la presunzione, che intenerirebbe se non fosse irrimediabilmente sciocca e ridicola, di restaurar giardini. Ma il giardino cessa di esistere nel tempo proprio quando comincia ad esistere nel tempo: rimandando all’idea di giardino.
Esso è, per suo irrevocabile statuto – ci ricordava Carmen Añón nella sua fascinosa testimonianza, citando, mi pare, una definizione dell’immenso Bergamín –, non più né altro che un’architettura immateriale dell’anima, destinata a subire infinite metamorfosi nel momento stesso in cui si fa architettura materiale.
È chiaro che non posso cavarmela con una simile clausola: terminando qui, a buon mercato, la mia cicalata. Debbo tentar di spiegarmi: e lo farò con un ricordo personale e con un’evocazione letteraria.
Una sera d’inverno, a Montevideo querida. Dovevo incontrare Eduardo Galeano in un restaurante in prossimità del porto, là dove la ciudad vieja frana verso le acque limacciose del Rio de la Plata, per un asado, una bottiglia di tanat e – sovrattutto – quattro chiacchiere in libertà ed allegria. Era già là, con altri amici, quando vi giunsi, ed aveva un’aria che non gli conoscevo, imbronciata e turbata insieme. Ci raccontò, più tardi, d’essersi imbattuto, giorni avanti, a Buenos Aires, traversando Plaza San Martín, in Ernesto Sabato – il grande scrittore; il poeta delle peripezie del «pensiero triste che si baila» –: nella sua carrozzella di vecchio ormai invalido, si guardava intorno, meditabondo. Quando gli si avvicinò per salutarlo, Sabato, a mo’ di risposta, gli aveva indicato, con un gesto largo del braccio, i grandi alberi fronzuti del piccolo parco e il cemento dei nuovi grattacieli che ormai li soffocano, e aveva mormorato: «todo se pierde».


Continuiamo.
V’è una novella di Herbert George Wells che, discutendo intorno al tema difficile del giardino, e tentando una risposta alla domanda intrigante che cosa esso sia, m’è capitato spesso di richiamare. Torno a farlo.
Ne è protagonista un austero personaggio; uno studioso, mi pare, o un uomo di legge, assurto per i suoi meriti ad elevate e prestigiose dignità. La sua vita è stata sempre irreprensibile; la stima e l’affetto di amici eletti e devoti lo circondano. Dentro di sé, tuttavia, nasconde un segreto inconfessabile: che è un ricordo lancinante, una nostalgia insopportabile.
Quando, un giorno lontano – era poco più che fanciullo o appena adolescente – camminando lungo un’alta e grezza muraglia di mattoni, s’era avveduto con sorpresa di una porta, della quale mai, in precedenza, percorrendo quel tratto di strada che gli era consueto, s’era accorto. I battenti eran appena accostati, anzi socchiusi; incuriosito, li aveva spinti: docili, s’eran spalancati. Varcata la soglia, un orizzonte incredibile ed indicibile gli si era offerto agli occhi, di fiori d’ogni specie e d’ogni profumo, lussureggiar di piante e d’alberi, il cui addensarsi s’apriva poi su distese di prati percorsi da docili animali esotici. S’era inoltrato nel giardino di incanti, aveva seguito il diramarsi dei sentieri, aveva sostato qua e là inebbriato. Un sentimento di felicità totale, assoluta, l’aveva pervaso. Era tornato in sé quando il sole era ormai calato e il fresco dell’imbrunire gli aveva dato la breve scossa di un brivido. Tornato al varco da cui era entrato in quel luogo fiabesco, ne era uscito e, riaccostati, cauto, i battenti della porta, si era ripromesso di tornar l’indomani. E tornerà, camminerà lungo l’alta e grezza muraglia di mattoni: ma, della porta, non riuscirà più a trovar traccia. «Debbo essermi distratto», pensa; «la porta era forse altrove, più giù, più su». Ripercorrerà, con ansia e poi angoscia crescenti, avanti e indietro, il tratto di muro. Nulla, giorno dopo giorno. Eppure, sapeva che il giardino fatato non era stato il fantasma di un sogno. L’adolescente cresce; compie brillantemente studi difficili; guadagna, una dopo l’altra, le tappe ardue di un corso d’onori glorioso; è additato al rispetto e all’ammirazione di tutti, e vien guardato, con invidia, come chi ha realizzato nella vita quanto di più nobile e bello si potesse raggiungere. Ma, dentro di lui, la ferita continua a sanguinare di un ricordo che non rivela a nessuno. Una porta in un muro, aperta, una volta, sulla malìa di un eden, divenuto, subito dopo essersi dato nella compiuta pienezza del suo magico fulgore, introvabile, invisibile.
Un mattino, passeggiando pensieroso, si perde per vicoli contorti, ne esce su una strada bordeggiata da un’erta muraglia; la riconosce, e, quasi senza volerlo, accelera il passo, risalendo la barriera di grezzi mattoni; d’improvviso, con un sobbalzo del cuore, scorge una porta, i battenti appena accostati, quasi socchiusi. Li spinge, si spalancano. La sera, gli amici che puntualmente incontrava nel circolo esclusivo consueto per il bicchierino di sherry e svagati conversari, si sorprendono nel non vederlo arrivare: mai era accaduto. Più che preoccupati, sconcertati, lo fan cercare a casa e apprendono che non vi era rientrato: né rientrerà nel corso della notte. È scomparso. All’alba, cominciano le ricerche che si protraggono, sempre più frenetiche ma invano, per giorni e giorni, sino a quando qualcuno, inorridito, ne troverà il corpo esanime, e già quasi decomposto, tra rottami, immondizie, carcasse, in una discarica abbandonata, ai bordi della città, al di là di un’alta e grezza muraglia di mattoni.

Il muro, e la porta – lo sappiamo bene – hanno una forte pregnanza simbolica, come, del resto, la discarica in quanto possa intendersi come letamaio: che rimanda a Giobbe, in cui la letteratura romantica, da Chateaubriand a Lamartine a Hugo, riconoscerà «il mesto testimone della nostalgia di infinito» e la Modernità, con Beckett, l’antesignano di «tous ceux qui tombent», con Julien Green la diafana ed esile speranza di «ce qui reste du jour». Borchert, in un dramma del 1946, pone Giobbe proprio «drossen vor der Tür» – «davanti alla porta» – che si chiude sulla domanda «Warum schweigt ihr dem? Warum? Gibt dem keiner eine Antwort?» – «perché tacete? perché? non risponde dunque nessuno?» –. Il grande poligrafo canadese Paul Zumthor al quale dobbiamo alcune delle pagine di riflessione sulla nozione di tempo e spazio fra le più penetranti ed illuminanti che mai siano state scritte, introducendo una sua raccolta di novelle, che si intitola – vedi il caso – La porte à coté, allude alle porte che uno chiude dietro di sé via via che procede il cammino della sua vita, sino a lasciare aperta quella che non si ha il diritto di chiudere, e davanti alla quale non resta che soffermarsi, e attendere meditando sul tempo della vita e della sua fine: e questa estrema esitazione riflessiva non può che prendere la forma di un luogo. Se per lui, Zumthor, quel luogo sarà la terrazza della sua casa di Westmount a Monréal, dalla quale lo sguardo poteva spaziare sulle periferie meridionali della città e, di là, sul fiume e sino al profilo verdebruno delle montagne del Vermont emergente da una cortina bassa di nebbie, e ne trova conforto nel momento stesso in cui è consapevole che quel luogo è indifferente verso di lui, che lo contempla trasfigurandolo e animandolo nella propria interiorità, e verso il giardino della sua terrazza che tuttavia non può prescinderne, per il professor Isaac Borg di Ingmar Bergman, il luogo – luogo della memoria, sempre davanti all’ultima porta – è il «posto delle fragole», cui approda, dopo la freudiana premonizione iniziale e prima di assopirsi accettando – quale che potrà essere – il suo destino, coniugando, con Proust, la memoria del tempo felice, con Kafka, lo smarrimento, con Strindberg, la sofferenza e la consapevolezza straziante della morte.
Ricorda Maurice Halb-wachs – il discepolo geniale di Durkheim; l’autore degli splendidi Quadri sociali della memoria – che, quando per la prima volta capitò a Londra, provò la sensazione di esserci già stato. L’aveva visitata leggendo i romanzi di Dickens? Borges ha scritto al riguardo una pagina straordinaria, concludendo in maniera apparentemente paradossale, che, per conoscere un luogo, per impadronirsi di esso, non occorre andarci fisicamente: esistono “paesaggi dell’anima” che sono – come è stato ben detto – uno “schedario di ricordi” misteriosi.
Spero di non passar per petulante se sfodero un’altra citazione: e si tratta d’un richiamo al volume corposissimo ma affascinante di Simon Schama su Landscape and Memory, che non so se sia stato tradotto in italiano (è uscito presso Knopf a New York nel 1995, e, da noi, è stato comunque lucidamente recensito da Franco Ferrarotti). Come quest’ultimo sottolinea, del «dualismo [di ascendenza cartesiana, in realtà platonica] natura e cultura, res cogitans e res extensa, anima e corpo, empiria e teoria», Schama tenta la sintesi: «la presenza umana sembra essere essenziale anche per documentarne l’assenza». Siamo ben aldilà – come ognuno avrà ben inteso – della stessa estetica e delle stesse poetiche preromantiche e romantiche del sublime laddove affermano la soggettivazione, l’interiorizzazione soggettiva, della Natura.

 

Ecco. Anche se abbiam fatto di tutto, ottemperando ad una raccomandazione di Domenico Luciani, per lasciarlo da parte, sul paesaggio siam cascati, direi senza volerlo ma per forza di cose: giacché, se è pur vero che il giardino non è paesaggio, è non meno vero che, dal paesaggio, il giardino, allorché se ne impalca l’idea, non può prescindere.
«I paesaggi – afferma Schama – sono cultura prima di essere natura; sono costruzioni dell’immaginazione proiettate sulla selva, sull’acqua, e sulla roccia [...]. Occorre però anche riconoscere – prosegue Schama – che una volta che una certa idea di paesaggio, di un mito, di una visione si è stabilita in un certo luogo, essa acquista una capacità particolare di confondere le categorie, di rendere le metafore più reali dei loro referenti; di trasformarsi, di fatto, in una parte del quadro». Il ragionamento dello Studioso s’incentra, e si avvolge, sul De Germania di Tacito, convocando il confronto tra Varo e Arminio con la sacralizzazione della foresta, sede della divinità primigenia, da parte di quest’ultimo: e, del rischio di un simile passaggio, Schama è ben consapevole allorché ne addita le strumentalizzazioni aberranti da parte degli ideologi del Nazismo, emblematizzate dal motto Blut und Boden – sangue e suolo – che si vuol essere stato forgiato dal ministro dell’agricoltura di Hitler, Rudolf Darré (e noi potremmo rammemorare più sbracate e buontempone – l’assalto al campanile di San Marco anziché alle nubi corrusche del Walhalla –, ancorché insolenti, conseguenze, impantanate nella mitizzazione abusiva di sorgive acque padane...).
«Il vero problema – conclude Schama – consiste nel decidere se sia possibile prendere il mito sul serio nei suoi termini stessi, rispettare la sua coerenza e complessità senza farsi moralmente accecare dalla sua forza poetica». Ma «non prendere il mito sul serio in una cultura disincantata come la nostra, significherebbe di fatto impoverire la nostra comprensione del mondo che abbiamo in comune»: e questo, a me pare, è il punto sostanziale, giacché, ad inverarlo, il mito, depositato e custodito in un paesaggio, nella forma di un luogo è il gesto creativo della nostra immaginazione. E il giardino è (può essere) luogo, dunque, indissolubilmente correlato, non tanto al paesaggio naturale come ambiente insignificante, ma al paesaggio mitizzato da una memoria culturale. La filosofia, accanitamente propugnata dalla giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino – e sulla quale, a buon diritto, Domenico Luciani non manca di insistere con ostinazione – scaturisce da codesta convinzione, che è venuta consolidandosi e facendosi imperterrita negli anni: nell’esito del 2004, è da una brughiera, mitizzata dalla memoria delle lotte e della diuturna fatica dei contadini, che vien fatto prorompere il segno, magico e commovente, che connota il luogo cui il premio è stato assegnato.
Non sto divagando: sebbene m’avveda che, ad ogni passo, corra il rischio di farlo, e di partir – come si suol dire – per la tangente.
Torniamo, ad ogni buon conto, per un attimo, indietro, risalendo dallo «schedario dei ricordi» di Zumthor, che si fa ''paesaggio dell’anima'' come dimensione della memoria, o di una nostalgia, al suo riporsi e difendersi in un recinto che può esser tante cose. Un chiostro, un cortiletto, una terrazza, ecc.: anche un segmento di muro su cui si profila la sagoma di una porta rischiosa. E, tuttavia, non è spazio – dall’etimo latino spatium (collegabile, forse, avverte Giacomo Devoto, con patére: essere manifesto) – il quale designa, siccome precisa l’Amica gentile Carmen Añón in un saggio mirabile che ha avuto la generosità di dedicarmi, il «contenitore di un contenuto» ovvero, giusta Paul Zumthor, un «vuoto da riempire», oppure, e meglio, «l’intervallo cronologico o topografico [ma io direi cronologico-topografico] che separa due punti di riferimento». È viceversa e appunto, luogo – dall’etimo latino locus, privo di connessioni etimologiche attendibili –, la cui valenza è eminentemente temporale ed emozionale. Se il luogo è inseparabile dalla mitizzazione nella realtà naturale di un «momento d’origine, d’incontro, saturo di memoria» sacra, eroica, è «produttore di meraviglie» in quanto creato da un avvenimento sollecitato dall’immaginazione, e sia pur in un preciso contesto di storia individuale e/o collettiva, e parla, anzitutto, all’immaginazione.

 

 

Marcel Detienne, in Invention de la mythologie, ricorda il luogo che Gerone primo (o, forse, secondo), tiranno di Siracusa, aveva fatto allestire e riporre entro la carcassa di una trireme, come suo «amabile rifugio dove era possibile discutere, all’ombra squisita dell’albero dell’incenso, tra il mormorio delle acque e gli aromi confusi dell’innocenza e della depravazione». «Mito», Gerone aveva voluto chiamare quel luogo, voluto, come il Sacro Bosco di Bomarzo, «sol per dar sfogo al cuore», e «che sol sé stesso e null’altro somiglia». Non spazio, dunque; privo qual è – in quel confondersi dei profumi dell’innocenza e della depravazione («un buon paradiso – ha osservato una volta Battisti – non può esistere senza aver accanto un buon inferno») –, nella biforcazione moltiplicata e temporale dei suoi sentieri, di coordinate capaci di ancorarlo e subordinarlo, oggettivamente, ad un centro definitivo. Ove pur la storia – eroica, sacra; alta o miserabile – vi filtra attraverso la cultura (con le sue sedimentazioni di memoria mitica) di chi compie il gesto che evoca il luogo, essa si sperde e dissolve in una rappresentazione labirintica (e non posso non ricordare, allora, l’entusiasmo con cui l’Amico carissimo – che, purtroppo, non è qui, ma cui vanno i miei più affettuosi voti augurali – Gianni Pirrone, tanto meritorio per questi nostri studi, accolse il mio suggerimento di intitolare il fondativo convegno di Palermo nel 1983 Il giardino come labirinto della Storia). E vi si filtra la Storia, in «quella stanza misteriosa» che è il giardino (il luogo), anche nelle sue negazioni – ciò che poteva essere, e non è stato – che son le «meraviglie terrificanti del caso», cui allude Schiller in Der Spaziergang, rendendole emozionalmente sondabili, giusta l’auspicio di Novalis, lungo i «mille esili fili» suoi, annunciati da Kleist a Wilhelmine: che tracciano il percorso delle «vie più remote» che, secondo Schopenhauer, avvicinano il caso alla necessità. Alfine: il casuale reale di Hegel.
Se il giardino è luogo, in quanto forma emozionalmente esperibile, ancorché nei suoi proteici mutamenti, che non prescinde da una originaria compatibilità tra l’uomo e la natura fisica, la quale – ci rammenta Rosario Assunto – nel giardino diventa «espressione [...] e non più funzione né oggetto di sfruttamento materiale», esso non è, tuttavia, architettura («credetemi, quella era un’età felice – esclama Seneca, nelle Epistole morali –, prima degli architetti, prima dei costruttori...»).
Non me ne vogliano gli amici architetti, che alle regole della progettazione architettonica pretendono, illudendosi, d’assoggettare la creazione dell’immagine del giardino, magari mettendosi a baruffar con gli urbanisti – l’ho già denunciato – rivendicando un primato, che a me par piuttosto funzionale ad ampliare il campo delle ben remunerate occasioni professionali, più che a ragioni di estetica, o di etica. L’architettura è la prova palese e incontestabile che la compatibilità con la Natura (lato sensu) è andata perduta o – vogliam essere ottimisti – è stata sospesa: perché – in accordo con il commento di Silvano Petrosino al conturbante racconto di Kafka La tana – sollecita lo «sguardo idolatrico» in quanto mira alla «costruzione dell’idolo» (al senso biblico) e concepisce la «costruzione come idolo». Il creatore del giardino è un poeta (che può essere un vagabondo perduto nelle solitudini avvampanti e incandescenti di un deserto, che, per Borges, è il labirinto più solenne e austero, o un indigente indio aymara o quechoa dimenticato tra le colate pietrificate della lava di alti vulcani minacciosi): il poeta, dico, preconizzato da Bacone, e impersonato dall’Allison – che abbiam indietro evocato – delle Terre di Arnheim di Edgar Allan Poe, che cala i fantasmi del suo paesaggio interiore nella realtà di un paesaggio mitizzato.

Ma, allora – e a capo del dibattito che ha acceso queste due giornate indimenticabili; e a conclusione delle peripezie di codesto mio intervento – cos’è davvero il giardino? Esiste, quando pur rifiuta l’arroganza e la certezza esibite, che appartengono ai monumenti di pietra?
El jardin: misterio, sensualidad, romanticismo y muerte, intitola Carmen Añón il toccante saggio che, prima, ho richiamato; e cita un passo di Impresiones y paysajes del visionario gitano García Lorca, che «con i propri occhi vide la bellezza» facendosi – come paventava von Platen – precoce e sicura «preda della morte». «Un giardino è una coppa immensa di mille essenze [...]. Un giardino è qualcosa che abbraccia amoroso, è un’anfora tranquilla di melanconie. Un giardino è un sacrario di passioni, è una cattedrale grandiosa per bellissimi peccati». Giardini per il ricordo, e per l’oblio. Ecco. Forse, il giardino è questo: il luogo che si invera, concedendosi così all’emozione del possesso – come ammonisce Borges (e non lo sapeva il mesto protagonista della metafora narrativa di Wells da cui abbiam preso le mosse) –, nella nostalgia di un sogno irripetibile. E che può esser veritiero.
Si era addormentato Chuang-tzu – è ancora Borges che parla – all’ombra fresca di un grande albero, e aveva sognato di trovarsi nei prati incantati di un paradiso felice, di aggirarsi rapito tra quelle meraviglie vegetali: e di aver colto un fiore. Poi, d’improvviso, s’era svegliato, e teneva in mano quel fiore.



 

Intervento conclusivo di Lionello Puppi alle giornate di studio sul paesaggio 2004, prima edizione,
Treviso, sabato 7 febbraio 2004.

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