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la Fondazione per

Il giardino nel nostro tempo, nel nostro mondo

di Lionello Puppi


Marcel Detienne, in Invention de la mythologie, ricorda il luogo che Gerone primo (o, forse, secondo), tiranno di Siracusa, aveva fatto allestire e riporre entro la carcassa di una trireme, come suo «amabile rifugio dove era possibile discutere, all’ombra squisita dell’albero dell’incenso, tra il mormorio delle acque e gli aromi confusi dell’innocenza e della depravazione». «Mito», Gerone aveva voluto chiamare quel luogo, voluto, come il Sacro Bosco di Bomarzo, «sol per dar sfogo al cuore», e «che sol sé stesso e null’altro somiglia». Non spazio, dunque; privo qual è – in quel confondersi dei profumi dell’innocenza e della depravazione («un buon paradiso – ha osservato una volta Battisti – non può esistere senza aver accanto un buon inferno») –, nella biforcazione moltiplicata e temporale dei suoi sentieri, di coordinate capaci di ancorarlo e subordinarlo, oggettivamente, ad un centro definitivo. Ove pur la storia – eroica, sacra; alta o miserabile – vi filtra attraverso la cultura (con le sue sedimentazioni di memoria mitica) di chi compie il gesto che evoca il luogo, essa si sperde e dissolve in una rappresentazione labirintica (e non posso non ricordare, allora, l’entusiasmo con cui l’Amico carissimo – che, purtroppo, non è qui, ma cui vanno i miei più affettuosi voti augurali – Gianni Pirrone, tanto meritorio per questi nostri studi, accolse il mio suggerimento di intitolare il fondativo convegno di Palermo nel 1983 Il giardino come labirinto della Storia). E vi si filtra la Storia, in «quella stanza misteriosa» che è il giardino (il luogo), anche nelle sue negazioni – ciò che poteva essere, e non è stato – che son le «meraviglie terrificanti del caso», cui allude Schiller in Der Spaziergang, rendendole emozionalmente sondabili, giusta l’auspicio di Novalis, lungo i «mille esili fili» suoi, annunciati da Kleist a Wilhelmine: che tracciano il percorso delle «vie più remote» che, secondo Schopenhauer, avvicinano il caso alla necessità. Alfine: il casuale reale di Hegel.
Se il giardino è luogo, in quanto forma emozionalmente esperibile, ancorché nei suoi proteici mutamenti, che non prescinde da una originaria compatibilità tra l’uomo e la natura fisica, la quale – ci rammenta Rosario Assunto – nel giardino diventa «espressione [...] e non più funzione né oggetto di sfruttamento materiale», esso non è, tuttavia, architettura («credetemi, quella era un’età felice – esclama Seneca, nelle Epistole morali –, prima degli architetti, prima dei costruttori...»).
Non me ne vogliano gli amici architetti, che alle regole della progettazione architettonica pretendono, illudendosi, d’assoggettare la creazione dell’immagine del giardino, magari mettendosi a baruffar con gli urbanisti – l’ho già denunciato – rivendicando un primato, che a me par piuttosto funzionale ad ampliare il campo delle ben remunerate occasioni professionali, più che a ragioni di estetica, o di etica. L’architettura è la prova palese e incontestabile che la compatibilità con la Natura (lato sensu) è andata perduta o – vogliam essere ottimisti – è stata sospesa: perché – in accordo con il commento di Silvano Petrosino al conturbante racconto di Kafka La tana – sollecita lo «sguardo idolatrico» in quanto mira alla «costruzione dell’idolo» (al senso biblico) e concepisce la «costruzione come idolo». Il creatore del giardino è un poeta (che può essere un vagabondo perduto nelle solitudini avvampanti e incandescenti di un deserto, che, per Borges, è il labirinto più solenne e austero, o un indigente indio aymara o quechoa dimenticato tra le colate pietrificate della lava di alti vulcani minacciosi): il poeta, dico, preconizzato da Bacone, e impersonato dall’Allison – che abbiam indietro evocato – delle Terre di Arnheim di Edgar Allan Poe, che cala i fantasmi del suo paesaggio interiore nella realtà di un paesaggio mitizzato.

Ma, allora – e a capo del dibattito che ha acceso queste due giornate indimenticabili; e a conclusione delle peripezie di codesto mio intervento – cos’è davvero il giardino? Esiste, quando pur rifiuta l’arroganza e la certezza esibite, che appartengono ai monumenti di pietra?
El jardin: misterio, sensualidad, romanticismo y muerte, intitola Carmen Añón il toccante saggio che, prima, ho richiamato; e cita un passo di Impresiones y paysajes del visionario gitano García Lorca, che «con i propri occhi vide la bellezza» facendosi – come paventava von Platen – precoce e sicura «preda della morte». «Un giardino è una coppa immensa di mille essenze [...]. Un giardino è qualcosa che abbraccia amoroso, è un’anfora tranquilla di melanconie. Un giardino è un sacrario di passioni, è una cattedrale grandiosa per bellissimi peccati». Giardini per il ricordo, e per l’oblio. Ecco. Forse, il giardino è questo: il luogo che si invera, concedendosi così all’emozione del possesso – come ammonisce Borges (e non lo sapeva il mesto protagonista della metafora narrativa di Wells da cui abbiam preso le mosse) –, nella nostalgia di un sogno irripetibile. E che può esser veritiero.
Si era addormentato Chuang-tzu – è ancora Borges che parla – all’ombra fresca di un grande albero, e aveva sognato di trovarsi nei prati incantati di un paradiso felice, di aggirarsi rapito tra quelle meraviglie vegetali: e di aver colto un fiore. Poi, d’improvviso, s’era svegliato, e teneva in mano quel fiore.



 

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Intervento conclusivo di Lionello Puppi alle giornate di studio sul paesaggio 2004, prima edizione,
Treviso, sabato 7 febbraio 2004.

 
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