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Il giardino nel nostro tempo, nel nostro mondo

di Lionello Puppi


Il muro, e la porta – lo sappiamo bene – hanno una forte pregnanza simbolica, come, del resto, la discarica in quanto possa intendersi come letamaio: che rimanda a Giobbe, in cui la letteratura romantica, da Chateaubriand a Lamartine a Hugo, riconoscerà «il mesto testimone della nostalgia di infinito» e la Modernità, con Beckett, l’antesignano di «tous ceux qui tombent», con Julien Green la diafana ed esile speranza di «ce qui reste du jour». Borchert, in un dramma del 1946, pone Giobbe proprio «drossen vor der Tür» – «davanti alla porta» – che si chiude sulla domanda «Warum schweigt ihr dem? Warum? Gibt dem keiner eine Antwort?» – «perché tacete? perché? non risponde dunque nessuno?» –. Il grande poligrafo canadese Paul Zumthor al quale dobbiamo alcune delle pagine di riflessione sulla nozione di tempo e spazio fra le più penetranti ed illuminanti che mai siano state scritte, introducendo una sua raccolta di novelle, che si intitola – vedi il caso – La porte à coté, allude alle porte che uno chiude dietro di sé via via che procede il cammino della sua vita, sino a lasciare aperta quella che non si ha il diritto di chiudere, e davanti alla quale non resta che soffermarsi, e attendere meditando sul tempo della vita e della sua fine: e questa estrema esitazione riflessiva non può che prendere la forma di un luogo. Se per lui, Zumthor, quel luogo sarà la terrazza della sua casa di Westmount a Monréal, dalla quale lo sguardo poteva spaziare sulle periferie meridionali della città e, di là, sul fiume e sino al profilo verdebruno delle montagne del Vermont emergente da una cortina bassa di nebbie, e ne trova conforto nel momento stesso in cui è consapevole che quel luogo è indifferente verso di lui, che lo contempla trasfigurandolo e animandolo nella propria interiorità, e verso il giardino della sua terrazza che tuttavia non può prescinderne, per il professor Isaac Borg di Ingmar Bergman, il luogo – luogo della memoria, sempre davanti all’ultima porta – è il «posto delle fragole», cui approda, dopo la freudiana premonizione iniziale e prima di assopirsi accettando – quale che potrà essere – il suo destino, coniugando, con Proust, la memoria del tempo felice, con Kafka, lo smarrimento, con Strindberg, la sofferenza e la consapevolezza straziante della morte.
Ricorda Maurice Halb-wachs – il discepolo geniale di Durkheim; l’autore degli splendidi Quadri sociali della memoria – che, quando per la prima volta capitò a Londra, provò la sensazione di esserci già stato. L’aveva visitata leggendo i romanzi di Dickens? Borges ha scritto al riguardo una pagina straordinaria, concludendo in maniera apparentemente paradossale, che, per conoscere un luogo, per impadronirsi di esso, non occorre andarci fisicamente: esistono “paesaggi dell’anima” che sono – come è stato ben detto – uno “schedario di ricordi” misteriosi.
Spero di non passar per petulante se sfodero un’altra citazione: e si tratta d’un richiamo al volume corposissimo ma affascinante di Simon Schama su Landscape and Memory, che non so se sia stato tradotto in italiano (è uscito presso Knopf a New York nel 1995, e, da noi, è stato comunque lucidamente recensito da Franco Ferrarotti). Come quest’ultimo sottolinea, del «dualismo [di ascendenza cartesiana, in realtà platonica] natura e cultura, res cogitans e res extensa, anima e corpo, empiria e teoria», Schama tenta la sintesi: «la presenza umana sembra essere essenziale anche per documentarne l’assenza». Siamo ben aldilà – come ognuno avrà ben inteso – della stessa estetica e delle stesse poetiche preromantiche e romantiche del sublime laddove affermano la soggettivazione, l’interiorizzazione soggettiva, della Natura.

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Intervento conclusivo di Lionello Puppi alle giornate di studio sul paesaggio 2004, prima edizione,
Treviso, sabato 7 febbraio 2004.

 
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