Nella mia intemperante antologia, non esiterei a convocare, poi, i giardinetti di arboscelli affaticati e di piantine di coca benefica per sopportar la rarefazione dell’aria nelle altitudini vertiginose, e bastoncini di incensi fumiganti, profumi a Pacha Mama, la Madre Terra, entro recinti marcati da muriccioli di lucide pietre di granito a scandir gli spazi tra le casupole di fango essiccato e di lamiere ricoperte di calce, ai quattromila metri del villaggio andino di Tigua, sullo sfondo dei coni innevati dei vulcani; e li guarda un lama paziente, e li sorveglia il volo maestoso ed enigmatico di un condor. Ma senza lama, condor, vulcani non sarebbero quei giardini. Subito di seguito, inserirei il giardino – “hortus conclusus” – in cui mi inoltrai, un mattino gelato, entro il chiostro di un monastero di donne a Suzdal, nel cuore profondo dalla Santa Madre Russia (la Ru’s dell’epopea di Igor e della nostalgia di Esenin); due filari incrociati di betulle i cui rami l’algore aveva rivestito di una pelle trasparente e luccicante di ghiaccio; e tornai a quel giardino, nel meriggio tiepido, ma, sciolto quel velo fragile dal calore del sole, era un altro giardino. M’avvedo, però, a questo punto, che il mio slancio volonteroso rischia di somigliar alla fatica inutile di Sisifo: non solo il giardino vive in un paesaggio, ma puranco, come la musica e lo spettacolo teatrale (non lo constatava Battisti nella citazione accortamente prodotta da Luciani?), nel tempo; è evento mutevole, proteiforme, instabile, è forma inafferrabile, è il fiume di Eraclito l’Oscuro. Esiste – insomma – il giardino? Quello che io vedo sbocciare agli inviti del sole di primavera non è lo stesso che avevo guardato nel freddo dei rigori invernali; quello lussureggiante, verde e multicolore, che splende ai bagliori dell’estate, non è la misura dorata ma già affaticata entro cui cominciano a depositarsi brine autunnali. Lo stesso giardino diventa un altro quando lo investono la tempesta, e sobbalza e si frantuma al lampo delle folgori, e gli scrosci della pioggia, ed è un altro ancora quando lo avvolge la nebbia, e un altro quando lo copre la neve. I giardini che abbiamo ammirato nelle diapositive magiche dei testimoni che si son succeduti in questi due giorni (o che possiamo ammirare nelle fotografie sontuose che illustrano una pubblicistica ch’è diventata, diciamolo, troppo di moda), ove ci prendessimo la briga di andare a visitarli oggi – adesso –, alla nostra percezione, al nostro concreto experiri, si presenterebbero come un’altra cosa: e, forse, altra cosa eran già divenuti subito dopo lo scatto dell’obiettivo fotografico. Esiste, dunque, ripeto, il giardino? Esistono – certo – impianti fragili e friabili di tipologie classificabili, ci son memorie che ci consentono identificazioni e ci permettono persino di attrezzare scienze, tecniche e filologie specifiche, nonché di scrivere la storia del giardino nei secoli e nei luoghi. Esiste, ovviamente, la progettazione di giardini, rivendicata dall’arroganza degli architetti che la contendono agli urbanisti (e spetta viceversa a chi sappia incarnare l’Allison di Poe), e ne consegue la presunzione, che intenerirebbe se non fosse irrimediabilmente sciocca e ridicola, di restaurar giardini. Ma il giardino cessa di esistere nel tempo proprio quando comincia ad esistere nel tempo: rimandando all’idea di giardino. Esso è, per suo irrevocabile statuto – ci ricordava Carmen Añón nella sua fascinosa testimonianza, citando, mi pare, una definizione dell’immenso Bergamín –, non più né altro che un’architettura immateriale dell’anima, destinata a subire infinite metamorfosi nel momento stesso in cui si fa architettura materiale. È chiaro che non posso cavarmela con una simile clausola: terminando qui, a buon mercato, la mia cicalata. Debbo tentar di spiegarmi: e lo farò con un ricordo personale e con un’evocazione letteraria. Una sera d’inverno, a Montevideo querida. Dovevo incontrare Eduardo Galeano in un restaurante in prossimità del porto, là dove la ciudad vieja frana verso le acque limacciose del Rio de la Plata, per un asado, una bottiglia di tanat e – sovrattutto – quattro chiacchiere in libertà ed allegria. Era già là, con altri amici, quando vi giunsi, ed aveva un’aria che non gli conoscevo, imbronciata e turbata insieme. Ci raccontò, più tardi, d’essersi imbattuto, giorni avanti, a Buenos Aires, traversando Plaza San Martín, in Ernesto Sabato – il grande scrittore; il poeta delle peripezie del «pensiero triste che si baila» –: nella sua carrozzella di vecchio ormai invalido, si guardava intorno, meditabondo. Quando gli si avvicinò per salutarlo, Sabato, a mo’ di risposta, gli aveva indicato, con un gesto largo del braccio, i grandi alberi fronzuti del piccolo parco e il cemento dei nuovi grattacieli che ormai li soffocano, e aveva mormorato: «todo se pierde».