Anzitutto, un grazie, che non appartiene ai rituali obbligati delle cerimonie insipide, ma viene dal profondo del cuore. Alla Fondazione Benetton Studi Ricerche e, per essa, all’Amico Domenico Luciani – che ne è l’anima, generosa instancabile possente, accesa da una passione che è temperata dalle doti rare della pazienza e dell’ironia – per aver voluto che a me fossero dedicate queste due indimenticabili giornate di studio e di riflessione sul tema del giardino, inusitato e perciò di vera attualità nel crepuscolo, che incombe (ma gli impediremo d’attingere la tenebra letale della notte), della ragione e dell’anima. Ma, anche, desidero dir grazie a Domenico (sodale e complice di tante battaglie intellettuali e civili) per avermi dato il conforto di accettare il dono modesto – ma è il solo autentico che uno studioso possa fare – delle carte caotiche del mio archivio di lavoro, e per aver affidato quei materiali torrenziali ed intemperanti alle cure competenti e squisite di una giovane bibliotecaria, Francesca Ghersetti, le cui attenzioni premurose mi hanno toccato e commosso. E grazie, quindi, ai Colleghi incomparabili, e alla lor volta complici, con Domenico e con me nella giuria del Premio Carlo Scarpa – Carmen Añón, Monique Mosser, Sven-Ingvar Andersson, Ippolito Pizzetti – per le testimonianze suggestive e stimolanti che hanno voluto portare: accomunandoli agli altri Colleghi che, del pari, son convenuti qui ad arrecare esposizioni non meno significative: ad Anne Whiston Spirn, a Massimo Venturi Ferriolo, a Hervé Brunon; e alla dilettissima Margherita Azzi Visentini, con particolar slancio per i ricordi che ha evocato e perché al suo maestro ha dato la maggior soddisfazione che un maestro possa attendersi da un allievo: di essere diventata più brava di lui. Ma la ringrazio pure, Margherita, per il coraggio delle denunce che ha sporto e il cui peso dovrà gravare come un macigno sulla coscienza di chi tanti delitti irreparabili commette per la fame dell’oro. Se pur è un fatto che «perdér es cuestion de método» – come qualcuno ha detto – e ci siamo abituati a non vincere più, almeno questo ci resta: di dare ostinatamente e interminabilmente fastidio. Un grazie, alfine, a tutti quanti son intervenuti a queste giornate (e vedo tanti altri Amici, e brillanti Allievi carissimi) a dispetto di nebbie e intemperie, rispondendo solo all’urgenza di un sentimento invincibile di devozione ai diritti della cultura (come i Pagani, avrebbe detto l’indimenticabile Giulio Carlo Argan, che riparavano nei villaggi remoti per evocare gli dei, cacciati dai templi abbattuti, nel racconto degli antichi miti), e non già obbedendo alla grancassa assordante dell’invito di media addomesticati o alla tentazione servile di esibirsi al cospetto delle cosiddette Autorità d’ogni risma e paludamento – politiche, burocratiche, militari, accademiche –, che, quando han sentore di impegno civile, vero, incontaminato e libero, ne fuggono il dialogo socratico come la peste bubbonica e, infatti e grazie a Dio, non ci hanno inflitto, affliggendoci, le liturgie vacue ed insulse, inseparabili dalla loro presenza, accigliata ma compiaciuta della sua ridondanza.