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la Fondazione per

Deir Abu Maqar

Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino
sedicesima edizione, 2005


Coordinato dal padre spirituale, il monaco Matta El Meskin, il cantiere si dimostra in grado di mobilitare le capacità professionali e operative dei monaci, molti dei quali laureati e diplomati; di dialogare con lo Stato, a sua volta impegnato a fondo nello sforzo per la bonifica del deserto e per la riforma agraria; di coinvolgere specialisti pertinenti, in particolare idrogeologi, archeologi, agronomi, ingegneri, architetti, veterinari. In un decennio, il monastero consegnato dalla storia, costituito dal piccolo rettangolo murato e da celle sparse dentro e fuori, ormai abbandonate, viene reinventato. Viene definito un nuovo perimetro molto più ampio e moltiplicato lo spazio interno. Nel grande cordone perimetrale, ulteriormente ingrandito in corso d’opera, trovano posto duecento celle individuali, articolate in più vani e servizi, tutte rivolte verso l’esterno, a guardare i campi coltivati e il deserto, nelle quali è perciò possibile organizzare una vita solitaria anche per periodi relativamente lunghi. Le altre funzioni comunitarie, tranne le chiese e la biblioteca, trovano anch’esse posto lungo questo poderoso edificio ovoidale che accerchia e protegge le testimonianze della memoria del monastero senza costituire un nuovo muro, e anzi, percepito dall’esterno, da lontano, appare come un falansterio. Nell’ambito occupato dal complesso monumentale storico si procede alla eliminazione di tutte le superfetazioni e all’asportazione di grandi quantità di materiali che si erano accumulati nel corso del tempo fino a rendere illeggibili i livelli e i vani originari. Vengono così ritrovate vestigia importanti di un patrimonio artistico in parte sepolto, in parte degradato. Le tre chiese e la fortezza vengono a definire uno spazio comunitario, una sorta di agorà o di chiostro, articolato in ambiti diversi eppure dotato di una forte unitarietà, sottolineata dalla nettezza della geometria pavimentale e da una speciale qualità d’insieme. Nel territorio esterno circostante il grande cantiere lavora, dentro un’orditura cartesiana di spazi quadrati protetti da alte siepi antivento, alla trasformazione del deserto in campi coltivati, orti e giardini, frutteti e pascoli. Dapprima qualche centinaio di feddan donati dal governo, ai quali se ne aggiungono altri via via, fino ad arrivare all’inizio del 2005 a circa 2.350, più o meno un migliaio di ettari (un feddan corrisponde a 0,42 ettari) che sono già in gran parte bonificati e racchiusi dentro un nuovo recinto, completato nel 1987, lungo circa 13 chilometri. Fin dal 1979 viene adottato un programma idraulico nel quale la nuova torre del monastero assume il compito di serbatoio sopraelevato dell’acqua, mentre da un numero crescente di pozzi, ormai diverse decine, profondi fino a 100 metri, vengono irrigate le colture con tecnologie sperimentali in continua evoluzione.
Deir Abu Maqar appare perciò anche il luogo nel quale la trasmissione di un corpus di valori da conservare nel tempo può avvenire anche, forse soltanto, attraverso l’innovazione, con mutamenti radicali della dimensione della comunità, con ampliamenti sorprendenti degli spazi conquistati al deserto, con inedite agricolture ed economie, con nuove sicurezze derivate più che da muri e recinti, da relazioni fiduciarie e rapporti allargati con le popolazioni nei dintorni, al di là delle differenti convinzioni religiose o appartenenze di chiesa, attraverso la collaborazione di almeno settecento lavoratori e, dunque, il concreto reddito di almeno settecento famiglie di villaggi dell’Alto Egitto.
Dedicando il Premio Carlo Scarpa 2005 a Deir Abu Maqar, la giuria intende dunque contribuire a far conoscere in Europa, con la vicenda del monachesimo egiziano, l’esperienza del mondo cristiano copto, e la sua mai cessata capacità, ancor oggi operante, di stare lontano dal potere come minoranza dentro un’area geopolitica connotata da altre esperienze maggioritarie, in un clima di vicinanza e di scambio rispettoso. In particolare, la giuria intende segnalare la crucialità di un luogo che sta vivendo una autentica rifondazione del modello monastico di lunga durata, dei suoi segni, dei suoi significati storici, delle ragioni sempre rinnovate della sua utopia concreta e della sua tensione visionaria. Rivolgendosi a cittadini impegnati a pensare e fare paesaggi, la giuria intende richiamare l’attenzione sul fatto che questa utopia concreta ha saputo dare forma allo spazio fisico nel quale si svolge, assumendo una propria identità, capace di evolvere e di sopportare modificazioni processuali ma anche scarti improvvisi, mutamenti imprevisti, discontinuità radicali. Ci colpiscono gli aspetti di una esperienza che ha saputo trovare in vari momenti la forza di una rinascita. Ci colpiscono lo stile, i modi, i suoni, le parole, la misura di spazio e di tempo che, partendo dai padri del deserto e dal monachesimo delle origini, sono ancor oggi trasmessi al visitatore, accolto sotto un berceau di gelsomini, con singolare, spontanea, toccante sobrietà. Si avverte qui il gusto delle giornate piene, operose, il valore della meditazione solitaria e insieme la capacità di dialogo riflessivo e quieto, l’ironia leggera, quasi gioiosa, con cui le comunità dei monaci di Wadi en-Natrun affrontano le domande ultime. Mentre stabiliscono relazioni fertili e intense con molte altre e diverse realtà culturali, ecclesiali, monastiche di ogni continente. Mentre incalzano le aporie del nostro mondo e del nostro tempo.

 

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cerimonia di premiazione

sabato 14 maggio 2005

Treviso, sede della Fondazione

 

Domenico Luciani ha introdotto e dato conto della motivazione della giuria; sono intervenuti Guido Dotti, vicepriore della comunità di Bose, e padre Samir Khalil Samir, fondatore del Centro di ricerche arabo-cristiane di Beirut; Monique Mosser, membro della giuria del Premio.

pubblicazione

Deir Abu Maqar, dossier 2005

 
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Deir Abu Maqar, premio Carlo Scarpa 2005


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