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Civiltà dell’acqua

innovazione e conservazione nella geografia pluricentrica e nella storia di lunga durata


È innanzitutto concettualmente conveniente prendere atto dell’infinita varietà e della sorprendente durata delle civiltà dell’acqua. Esse costringono a convocare alterità geografiche, lunghezze storiche, lontananze culturali, antropologie persistenti e quasi inspiegabili.

Il responsabile di un gruppo dogon che presentava a Torino, un mese fa, le danze e le maschere del suo popolo, alla domanda “perché non c’è tra voi una sola donna”, ha risposto “le donne non possono venire, perché le donne sono l’acquedotto. Senza di loro l’acqua non arriverebbe dai pozzi ai villaggi”. Ci chiediamo da dove venga questo comportamento. Marcel Griaule ha cominciato nel 1931 a studiare i dogon e ha lavorato per oltre quindici anni prima di entrare in confidenza con il vecchio saggio cacciatore Ogotemmeli, e finalmente afferrare che sotto apparenti casualità vi era la struttura unitaria e ordinata di una idea del mondo nella quale tutto ha origine quando Dio si accoppia alla terra e sparge in essa il suo seme, l’acqua, forza vitale universale, nella forma di “umidità che impregna di sé ogni figura del mondo fisico”; e nella quale troviamo un sistema numerico che lega tra loro “parola”, “acqua”, “donna”. Osserviamo come resista, dunque, in questa contrada del Mali, nell’altopiano di Bandiagara, un sistema di credenze, miti, riti, rappresentazioni e percezioni del sacro, culture materiali, comportamenti sociali, divisioni del lavoro che arriva ad affidare alla donna il compito di garantire l’acqua (la vita) agli altri componenti della comunità. Quel comportamento ci appare così, forse, meno misterioso.

Possiamo dire che le civiltà dell’acqua non sono altro che modi per stabilire un contatto, attrarre e governare “l’umidità che impregna di sé ogni figura del mondo fisico”.

Alle annuali giornate dell’acqua che il centro che presiedo ha tenuto a Trento nell’autunno 2000, Joakim Basié, un giovane ingegnere del Bourkina Faso, un paese nel quale la speranza di vita alla nascita è oggi circa la metà di quella europea (nelle campagne scende a 37 anni), ci ha spiegato che l’unico modo per rendere utile l’acqua disponibile è captarla nella sua forma di umidità notturna con piccoli cordoni di pietra, arginelli alti non più di una spanna, per poi farla accumulare in piccoli avvallamenti predisposti all’interno, avviando così una spirale virtuosa che crea un fragile ambito umido e, a partire da questo, piccole coltivazioni redditizie.

Una robusta schiera militante in questo campo, antropologi, etnologi, tecnici, cooperatori, e anche missionari (mi sia concesso citare il caso del fratello Giuseppe Argese, un minore conventuale che lavora in Kenya) presenta una ampia sperimentazione delle conoscenze tradizionali, in particolare nelle aree con acuti problemi di scarsità d’acqua. Una ricerca (1994-1998) promossa dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione ha potuto catalogare 78 modalità diverse di captazione, di raccolta e di utilizzazione dell’acqua articolate a seconda dei diversi ambienti fisici, dagli altipiani carsici umidi alle zone carsiche semiaride e ai bordi di altipiani; dalle steppe e savane ai deserti; dai bacini interfluviali alle situazioni di aspro pendio montano. E, di conseguenza, a seconda delle diverse disponibilità idriche prevalenti, dalle piogge alluvionali alle precipitazioni e acque atmosferiche, dalle acque di falda alle precipitazioni occulte; dalle acque nascoste alle esondazioni, fino alle acque di scorrimento sui declivi. Disponiamo dunque di un imponente repertorio di conoscenze e di casi. Vorrei trarne e proporre qui alcune riflessioni.


 

Relazione tenuta da Domenico Luciani, allora presidente del Centro Internazionale Civiltà dell’Acqua, in occasione dell’incontro internazionale La Question de l’Eau, 18 novembre 2001, organizzato da Le Monde Diplomatique, Tours.

 
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