Val BavonaPremio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino |
Alta Val Bavona (fotografia di Giuseppe Martini) |
Motivazione della giuria
La giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino ha deciso di dedicare l'edizione 2006 alla Val Bavona, luogo asperrimo di montagna, nel Canton Ticino, in Svizzera, solco breve e profondo, "orrido e ameno", scavato dal ghiacciaio, plasmato dall'acqua e dalla pietra con i tempi della geologia, nel quale una comunità di un migliaio di abitanti ha saputo confrontarsi con la potenza e con la durezza della natura definendo nel tempo le idee, i comportamenti, le misure e i manufatti di una antropologia dell'estremo. La forma e la vita della valle compongono un organismo geografico e storico unitario, disegnato da figure diverse, ognuna delle quali è leggibile con particolare nettezza.
Il ghiacciaio. Lo si intuisce nel profilo a U della valle e lo si vede sul Basòdino (3.272 metri) e sulle altre montagne dove ancora resiste ai mutamenti climatici e alle ben note insidie epocali.
L'acqua. Da questi ghiacciai inizia il bacino stretto di 124 chilometri quadrati, dei quali l'80 per cento è sopra i 1.400 metri di altitudine, e il corso ripido del fiume, che discende in una decina di chilometri, fino a immettersi, a quota 500, nel fiume Maggia, che a sua volta arriva dopo un'altra ventina di chilometri al Lago Maggiore, a quota 197. Il suono e la forza del fiume, che pare prenda il nome dalla sua schiuma bianca e tumultuosa (era chiamato Bavone), ci arrivano, oggi che il greto è asciutto, dalla cascata di Foroglio, l'unica sopravvissuta ai grandi lavori idroelettrici della metà del XX secolo. Lungo il corso del fiume troviamo tuttavia di continuo segni, simboli e attrezzi di una civiltà materiale sobria e dignitosa, "rude e gentile". Possiamo immaginare l'impeto delle piene e il senso di pericolo che le accompagnava e che ci è stato descritto da tante testimonianze dirette. Possiamo capire come la memoria del fiume possa durare così a lungo, come la sua assenza continui ad essere insopportabile, e come quell'improvviso silenzio seguito alla moderna deviazione intubata possa costituire una ferita ancora oggi così aperta nella sensibilità collettiva. Salendo a Robiei, dove i prati dell'alpe (alpeggio) hanno fatto spazio anche a un bacino idroelettrico, possiamo conoscere, nelle turbine e nelle gallerie dentro la montagna, la nuova condizione dell'acqua nel mondo contemporaneo.
I monti: i due fianchi della valle. L'orientamento da nord-ovest a sud-est li rende assai diversi per sole, vento, frane, ma parimenti erti, e quasi impraticabili. Eppure tutto l'organismo vitale si fonda sulla mobilità stagionale "verticale", attraverso sentieri e passaggi vertiginosi, per la transumanza degli animali. Prima dell'inverno gli animali vengono fatti scendere a fondovalle e dopo l'inverno vengono portati a quote comprese tra i 1.300 e i 2.300 a caricare gli alpi, che erano 20 a fine Ottocento (con 449 mucche e 2.740 capre), mentre ora ce n'è uno solo che resiste perché può usare una funivia. Le terre: i nuclei dell'insediamento umano nel fondovalle che sale per una decina di chilometri da quota 500 a quota 1.000, largo appena qualche centinaio di metri. Qui hanno trovato posto dodici terre, abitate dai terrieri nell'arco di tutto l'anno fino al xvi secolo, e poi solo nella buona stagione, grumi di case raccolte nei posti che vedono il sole, con i loro edifici devozionali, con una radura intorno, oltre la quale si ergono i monti, due foreste verticali di pietre, alberi, piccole strisce d'erba esposta in cenge vertiginose, corone, erba raccolta anch'essa ad ogni costo nonostante la "lista delle croci". Le terre sono staccate l'una dall'altra quanto serve perché ognuna abbia i propri tratti fisionomici riconoscibili, quel po' di prato che le è indispensabile e il proprio nome: Mondada, Fontana, Alnedo, Sabbione, Ritorto, Foroglio, Roseto, Fontanellata, Faedo, Bolla, Sonlerto, San Carlo. Erano collegate fino alla metà del XX secolo da una strada di valle (per le mucche) e da altri percorsi minori, per mezzo di manufatti e artifici leggeri, passerelle provvisorie, concepite per essere travolte dall'acqua o dalle pietre, e ricostruite subito dopo.
Terre, insediamenti misurati, collegamenti riattati dopo ogni piena e dopo ogni frana, alpi regolati da ferree norme d'uso nelle loro varie stazioni e corti (malghe), dai maggenghi ai pascoli alti e, tra le une e gli altri, sentieri tanto rischiosi quanto indispensabili; questo insieme definisce nello spazio e nel tempo la fisionomia storica, geografica, antropologica di un luogo che pone alle nostre generazioni, con tensione del tutto particolare nella crisi del mondo contemporaneo, l'interrogativo sui modi possibili di una salvaguardia e valorizzazione al riparo dalla prospettiva omologante delle brevi stagioni turistiche e delle manifestazioni effimere.
La Val Bavona mette dunque in questione il rapporto, impervio anch'esso, tra conservazione e innovazione dei patrimoni di natura e di memoria. Al di là dello stupefacente catalogo di beni naturali, storici, etnoantropologici che il luogo conserva in sé, le ragioni che rendono la Val Bavona un caso degno di speciale attenzione, e che hanno determinato la decisione della giuria, vanno infatti cercate nel più prezioso dei suoi patrimoni, che consiste nella presenza di una comunità dotata di un livello raro di consapevolezza, perfino orgogliosa degli elementi di peculiarità e di diversità, i quali non vengono vissuti come antiche miserie di cui vergognarsi ma, al contrario, vengono percepiti e descritti come eredità da trasmettere, come valori, quasi come privilegi. Di qui nasce l'autorevolezza degli organismi che ne sono responsabili, i Comuni e i patriziati di Cavergno e Bignasco, la Fondazione Valle Bavona, il Cantone, la Confederazione. Di qui la partecipazione allo sforzo di definire strumenti regolatori, norme d'uso del suolo e dell'ambiente, manuali di buone pratiche per gli interventi sui manufatti e sulle opere dell'arte e del lavoro. Di qui l'attenzione alle proposte e alle sperimentazioni che puntano a ricostruire brani di nuova economia e di nuova antropologia della montagna; e dunque l'alpeggio, il governo del bosco, le nuove arti, i nuovi mestieri, la manutenzione severa, la centralità insomma di una presenza umana stabile e vigile.
Possiamo qui conoscere una comunità che prende in carico le testimonianze di una civiltà materiale di cui è provvisorio responsabile, il cui valore non viene da emergenze monumentali o committenze famose, ma dall'ingegno e dal lavoro delle generazioni precedenti, dalla tensione irriducibile a non abbandonare la montagna e a dare così senso alla vita e alla morte, dal carattere radicale del confronto con una natura terribile e meravigliosa fino a mostrare il sacro. Possiamo qui ascoltare una comunità che continua a cantare la bellezza di uno stile di vita sobria, fino all'assenza di energia elettrica nelle abitazioni, come utopia concreta, come modo semplice e quotidiano di continuare, conservare, innovare l'accanita ricerca di spazio vitale che ha connotato la propria storia, riuscendo a rendere utili perfino i grandi massi franati, con la terra portata sopra di essi per farne frammenti di orto e di prato, o con l'uso funzionale degli anfratti nei grondàn, cantìn, e negli splüi.
Vi è insomma in questo luogo, a custodia attiva dei suoi caratteri, una condizione singolare resa possibile dai legami profondi, dalla conoscenza critica della propria storia, da una lunga e viva tradizione di intelligenze e di talenti, tra i quali spiccano le figure di Federico Balli (1854-1889), imprenditore e saggista, e di Plinio Martini (1923-1979), maestro elementare, poeta, scrittore di alta qualità e di forte tensione civile. Questa tradizione non si è spenta, ed è oggi visibilmente operante. Agli eredi di questa tradizione, ai custodi di oggi, la giuria consegna il sigillo di Carlo Scarpa, riconoscimento per quanto hanno fatto e fanno, caloroso incoraggiamento a continuare. Affinché questa valle mostri come la forza della storia di lunga durata di un luogo, quando sia davvero criticamente conosciuta e amata da chi vi è insediato e ne è responsabile, possa costituire il timone meno incerto nella tempesta delle trasformazioni travolgenti del nostro tempo. E affinché ci aiuti a immaginare come un altro mondo sia forse possibile.
Fondazione Benetton Studi Ricerche
/ en.fbsr.it stampa del 22 novembre 2024
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