A distanza di un secolo, il processo che ha portato, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, alla definizione del valore del patrimonio storico e del compito pubblico di proteggerlo, alla legge austriaca ispirata da Alois Riegl, alle leggi di tutela che ne sono derivate in tutta Europa, si sta ripresentando, oggi, nel processo che porta alla conquista di un’idea di paesaggio come «porzione di territorio, così come è percepita da chi vi abita, il cui aspetto è dovuto a fattori naturali e culturali (umani) e alle loro interazioni» (Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze 2000), e, di qui, alla responsabilità individuale e pubblica di curarlo, mantenerlo, governarlo. Il paesaggio diviene così un ambito identificabile di spazio fisico, non rappresentazione di un luogo ma luogo concreto, storicisticamente e antropologicamente determinato; coacervo di segni, significati, aure, aberrazioni, portate dalle trasformazioni materiali e dalla metamorfosi del gusto.
Il luogo occupa uno spazio, ha un sito e una postura, ma è molto più dello spazio che occupa e del sito in cui sta. Luogo è forma e vita; rapporto in movimento perenne tra forma e vita; risultato sempre aggiornato e sempre mutevole di tutte le stratificazioni di natura e di cultura (memoria) e, insieme, di tutte le tensioni a continuare a mutare nel tempo, di tutte le proiezioni vitali verso il futuro. Luogo/paesaggio come individuo.
Possiamo indagare sul paesaggio come indaghiamo sulla persona. Il volto muta continuamente e i suoi ritratti fulminano, in momenti diversi, questo cambiamento, ma rappresentano sempre lo stesso volto, la stessa vita, la stessa persona. Si pensi alla sequenza delle fotografie di un individuo in età successive. Essa ci mostra come già nel suo volto bambino ci sia il suo volto vecchio, come nel suo volto vecchio siano conservati e ancora riconoscibili i caratteri originari del suo volto bambino, l’espressione dello sguardo, il tono, i tratti fisiognomici costitutivi. Si pensi alla sequenza degli autoritratti di Rembrandt, e come in ognuno di essi viva la stratificazione di tutti i volti precedenti. E così come la persona è conoscibile e identificabile con i suoi connotati individuali in qualsivoglia insieme sociale di persone, il luogo/paesaggio è conoscibile e identificabile con i suoi connotati individuali a condizione che venga “strappata” (è la parola usata da Georg Simmel) dalla continuità del mondo fisico. La questione dell’individualità di un luogo, della sua temporalità, della sua conterminabilità e commensurabilità spaziale, si presenta a noi, in definitiva, come questione di conoscibilità per mezzo di saperi trasmissibili e come questione di responsabilità verso il patrimonio storico e naturale che contiene.
In questa “conoscibilità” e “responsabilità” stanno le condizioni del governo del paesaggio. L’attività di governo del paesaggio prevede dunque l’identificazione dei segni e dei caratteri costitutivi dei luoghi, la conterminazione dei loro ambiti, la definizione di programmi pluriennali di rinnovo, di pratiche stagionali e quotidiane di cura e manutenzione, di norme tese a regolare la convivenza nello stesso spazio di patrimoni naturali, sedimenti culturali, presenze umane, usi funzionali. Il governatore del paesaggio appare come un’auctoritas morale e culturale riconoscibile, in grado di decidere azioni, modificazioni, provvedimenti, usi e riusi coerenti con la forma e la vita del luogo nella lunga durata, ma il lavoro intellettuale e manuale necessario per governare le modificazioni dei luoghi, per salvaguardare e valorizzare i patrimoni autentici di natura e di memoria è ancora privo di statuto scientifico e di curriculum formativo. Il governo del paesaggio si presenta non come un potere onnisciente, ma, al contrario, come un polo coordinativo tra varie sfere di professionalità e di conoscenza, tra molte diverse scienze, tecniche e arti, con le quali non si identifica, ma con le quali stabilisce relazioni fertili e critiche. Un confronto forse utile può essere istituito con la direzione d’orchestra. Il direttore non ha il compito di suonare i vari strumenti, ma di conoscerne le potenzialità e metterne in valore le caratteristiche, così da trarre da ognuno di essi un contributo coerente alla propria idea generale del testo da eseguire e alla propria linea esecutiva. Queste sfere, tra le quali ovviamente esistono molteplici intersezioni, possono essere immaginate in una articolazione tripartita: idee, scienze, tecniche/arti/mestieri.
Il governatore dovrebbe conoscere (o saper ascoltare chi conosce) la storia delle idee, delle volontà e delle condizioni che hanno presieduto alla formazione della vita e della forma del luogo, avendo dimestichezza con gli archivi delle fonti scritte e disegnate e un’attitudine a valutare il peso che hanno avuto le varie forze nella formazione della sua identità e il peso che hanno le varie esigenze nell’orientamento da prendere in futuro.
Dovrebbe conoscere (o saper ascoltare chi conosce) le condizioni climatiche, idrogeologiche e biologiche che definiscono i caratteri fondativi del luogo, le specie e le catene vitali che vi possono insistere, dai microrganismi ai grandi esemplari vegetali. Gli specialismi scientifici possono contribuire, ma resta compito del governatore interpretare pareri e proposte con criteri storico-critici, così da tenersi al riparo da sperimentalismi alla moda o da stravaganze soggettive, e da evitare atti che non abbiano il respiro della lunga durata.
Ancora più attento dovrebbe essere il controllo del governatore sulla qualità dei progetti, delle opere e dei materiali, fino ai dettagli. La sfera delle arti e delle tecniche, degli interventi operativi, degli impianti vegetali, delle opere idrauliche, architettoniche, artistiche e artigianali è esposta a pressioni commerciali che offrono facili quanto illusorie soluzioni a problemi complessi, per mezzo di innovazioni solo apparentemente razionali. Il dialogo con le arti e con le tecniche si presenta continuamente come problema di spessore culturale e di stile, come “questione del gusto”.
Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza della presenza umana ininterrotta e amorevole per la qualità e per la vita stessa del luogo; sulla manutenzione come pratica quotidiana continua; sulla cura esecutiva dei tanti piccoli provvedimenti di rinnovo (non esiste il “restauro del paesaggio”) derivati dalla visione generale e dalle opzioni gestionali, scientifiche e tecnico/artistiche, programmati negli anni, distribuiti con ordine nell’agenda dei giorni e delle stagioni.
Non si deve confondere manutenzione con governo, che è determinazione di criteri, di vincoli, di regole d’uso, di limiti alla trasformazione; e che comporta responsabilità etica e politica prima ancora che culturale e scientifica. Insomma l’auctoritas del governatore dovrebbe poter coordinare l’intero ciclo di pensieri e di atti, rifuggendo da ogni fenomeno effimero o ricerca d’effetto, e trovando il suo difficile parametro nella lunga durata; ricercando, anche per mezzo di atti creativi, un equilibrio tra conservazione e innovazione in condizioni di continua mobilità del gusto e di permanente trasformazione del ruolo che la natura e la memoria esercitano nelle diverse civilizzazioni e fasi storiche.
La transizione dall’idea di tutela del paesaggio come vincolo all’idea di salvaguardia e valorizzazione della “identità” e della “autenticità” come guida attiva delle modificazioni, appare la conquista più difficile e più importante di questi anni. È una conquista che prende atto della inarrestabilità delle modificazioni della forma e della vita dei luoghi, e accetta il compito di indirizzarle verso nuove forme e nuove vite future, così da conservarne i caratteri fondativi, i tratti fisiognomici connotanti. Governare le modificazioni permanenti e inarrestabili è necessario in ogni luogo, non solo nei luoghi di speciale intensità inventiva o densità storica o fascinazione percettiva. La necessità di governo del paesaggio riguarda tutti i paesaggi. Forse, in questa fase storica di critica della modernità, si rivolge ancor più ai paesaggi ordinari, feriti, degradati. E anche nei luoghi che prendono forma da un pensiero e da un gesto inventivo unitario non pone al centro o in discussione il talento dell’inventore, ma la sapienza e la continuità di una guida che riesca a far vivere nel tempo quella stessa invenzione, a ritrovarla, a rinnovarla continuamente, facendola rimanere se stessa, in tensione tra innovazione e conservazione. Questa tensione è, a sua volta, in tutti i luoghi, risultato di una lotta permanente, nel tempo, tra le forze che spingono alla rovina e le forze che spingono all’elevazione. Sono gli stessi caratteri della natura e degli artifici culturali che tendono, contemporaneamente, da una parte a perdere forma e dall’altra a ritrovarla, da una parte a degradare la vita e dall’altra a rinnovarla. Così, la tensione tra innovazione e conservazione presenta esiti diversi in ogni luogo e in ogni momento; e in ogni momento e in ogni luogo qualcuno, una comunità, una persona, un’istituzione, ne porta la responsabilità.