Insediamento e mobilità nel Nord Est: appunti su una nebulosa senza centro

di Domenico Luciani


Il fatto nuovo non è che il consumo di territori, lo squilibrio di ambienti, il degrado di paesaggi incidano negativamente sulle condizioni di vita e di lavoro degli abitanti di vaste aree del Nord Est italiano. Il fatto nuovo è che questi fenomeni vengano percepiti come tali in ambiti sociali relativamente allargati.

E che, seppure ancora vissuta soprattutto come insofferenza per l’aumento patologico e pericoloso del traffico, per le strozzature della viabilità, per l’eccessiva proliferazione di nuove zone industriali, la questione dell’uso (della dissipazione) dello spazio fisico sia arrivata all’ordine del giorno, con un dibattito sulla stampa locale che ha i toni di una critica embrionale al “modello di sviluppo”.

Le forme assunte dalla diffusione dell’insediamento (residenziale, e ancor più industriale) e i modi assunti dalla mobilità nell’area veneta centro-orientale sono arrivate al limite oltre il quale sono a rischio quei caratteri originari, quelle stratificazioni storiche, quei patrimoni dell’identità (urbana, paesaggistica, antropologica) che hanno reso possibile il decollo e accompagnato il travolgente sviluppo degli anni sessanta e settanta del XX secolo. Il bivio tra forzatura del limite o avvio di un altro processo (inizio di una riforma) appare ineludibile.

Il Nord Est è da sempre caratterizzato da un accentuato policentrismo insediativo, le cui forme successive, fino alla metà del XX secolo, si erano appoggiate ognuna alle precedenti, senza rotture. Dagli sparsi insediamenti venetici all’armatura infrastrutturale romana del II secolo a.C., dalla diffusione dei castellieri medievali alle case di villa in età veneziana (oltre 3.700 nelle sette province del Veneto) e via via fino alla metà del XX secolo, i sistemi di vita, lavoro e mobilità si erano installati sugli strati preesistenti confermando e arricchendo di nuove testimonianze e di nuovi sedimenti il connotato cruciale di un’articolazione insediativa che trovava nel paesaggio agrario il principio ordinatore.

Tra città e città, tra villaggio e villaggio il tessuto connettivo era costituito dall’agricoltura e, a partire dal tardo medioevo, da attività che possiamo definire paleoindustriali e mercantili, collegate a una diffusa civiltà dell’acqua (governo dei conflitti, uso dell’energia idraulica, possesso di tecniche, arti e mestieri, costruzione di macchine e di artifici).

 

 

Il processo di dispersione insediativa che si manifesta nella seconda metà del Novecento trova dunque spiegazione nella storia e può essere descritto come “densificazione” di una rete idraulica, infrastrutturale e logistica preesistente, diffusa capillarmente, in grado di costituire la trama per un “decollo endogeno” locale e la piattaforma per un’“accumulazione flessibile”.

Nel quadrilatero che ha le basi sulla linea alta pedecollinare (da Schio a Pordenone), e sulla linea bassa appena sopra le lagune e le bonifiche (da Este a San Donà), alla fine degli anni Cinquanta del Novecento si è avviato un processo accelerato di cambiamento di tutti i parametri fondamentali (speranza di vita alla nascita, alimentazione, igiene, obbligo scolastico, tempo libero, redditi, consumi, abitazioni) e del modo di circolare e di viaggiare (mezzi, distanze) che ha assunto rapidamente il segno (tra gli altri segni) di una travolgente occupazione di suolo agricolo.

Nell’arco di due decenni (dati 1961-1982) hanno cambiato destinazione d’uso più aree agricole di quanto non fosse accaduto nella storia dei due millenni precedenti. Nella provincia di Padova, che ha una superficie totale di 2.142 chilometri quadrati, la superficie agricola è scesa da 1.878 chilometri quadrati (88 per cento della superficie totale) a 1.419 chilometri quadrati (66 per cento); nella provincia di Treviso (totale 2.477 chilometri quadrati) da 2.242 chilometri quadrati (90 per cento) a 1.480 chilometri quadrati (59 per cento); nella provincia di Vicenza (totale 2.722 chilometri quadrati) da 2.423 chilometri quadrati (89 per cento) a 1.331 chilometri quadrati (49 per cento); nell’arco di una generazione (poi il fenomeno prosegue seppure con un relativo rallentamento) in tre province venete sono stati sottratti al paesaggio agrario più di 2.300 chilometri quadrati (più di 230.000 ettari: un’intera provincia). Il fenomeno appare ancora più concentrato e impressionante se togliamo dal computo le aree non disponibili (montagna, bonifica, zone protette) e le aree già occupate (insediamenti preesistenti, corsi d’acqua, infrastrutture, cave). In quello stesso ventennio risulta costruita la metà dell’intero patrimonio immobiliare esistente oggi in quest’area; e ciò avviene in un quadro di aumento assai relativo del numero degli abitanti. Il policentrismo si fa dispersione. Dei 4,5 milioni di persone che vivono oggi nei 580 comuni del Veneto, più di 2,5 milioni vivono in 533 comuni con meno di 15.000 abitanti. Solo 14 comuni superano i 30.000 abitanti e, di questi, solo quattro superano i 100.000 abitanti. Non esiste un capoluogo regionale riconosciuto.

Il processo di dispersione insediativa è stato accompagnato dalla dilatazione di una mobilità individuale le cui dimensioni inusitate (e impreviste) non possono essere spiegate da una mera necessità di pendolarismo, ma da una serie di comportamenti, di domande, di affermazioni di diritti, di modificazioni di status. Nasce una vera e propria antropologia dell’automobile, che sarà più tardi completata dalla diffusione (ancor più improvvisa e impressionante) del telefono cellulare.

I veicoli a motore su gomma, che a metà del XX secolo erano poche decine per 1.000 abitanti, diventano (provincia di Treviso) 290 per 1.000 abitanti nel 1977, e sono oggi oltre 600 per 1.000 abitanti (compresi i minori e tutti gli altri “non idonei alla guida”).

Nell’area veneta centro-orientale, nel trapezio prima descritto, si è andati dunque ben oltre il policentrismo.

Si è formata una sorta di nebulosa insediativa connotata da una mobilità parossistica e monomodale. La letteratura scientifica non ha ancora trovato il nome per descriverla. Si continua a utilizzare per lo più “città diffusa” ma la definizione è lungi dall’essere adeguata. Il nome “città” ha perduto senso perché non si tratta di espansione della periferia ma di un diverso modo di occupare lo spazio e il tempo, di muoversi nello spazio e nel tempo. Nei documenti europei vengono illustrati gli effetti economici e sociali negativi del rapporto tra dissipazione di spazio, degrado di luogo, inceppo di mobilità, ma si continua a far riferimento a strumenti pianificatori inagibili e a norme vincolistiche astratte. La nebulosa insediativa è un modo di vivere in una mobilità individuale, nella quale macro-spostamenti e micro-spostamenti si aggrovigliano in uno spazio senza centro, nel quale tutte le funzioni possono essere poste ovunque.

Qui siamo. E di qui occorre muovere annotando i possibili pertugi verso una modificazione.

Cominciamo con i segni (piccoli ma importanti) di inversione della tendenza alla con-fusione tra città e campagna; segni di diversificazione, di riconquista di una reciproca alterità affidata alla costruzione di opportunità connotanti e misurabili.

La riproposizione di una duplice gravitazionalità è oggi forse al riparo dalle insidie della pura testimonianza, dalle derive nostalgiche, dalle tentazioni neoarcadiche. Il valore del centro storico “tiene” come luogo delle relazioni umane (gli esperimenti di pedonalizzazione cominciano ad avere successo). Il paesaggio agrario è oggetto di sperimentazioni colturali all’incrocio tra utilità e bellezza, di rinaturazioni dei corsi d’acqua anche come provvedimenti ispirati alla sicurezza.

Segni interessanti vengono dalla vicenda della ferrovia metropolitana leggera di superficie. Osserviamo il decollo dell’iniziativa e prendiamo atto dell’interesse crescente degli enti locali per la ramificazione, per la frequenza del servizio, per la qualità delle attrezzature che agevolano il cambio del mezzo (parcheggi, stazioni confortevoli e sicure, …).

Qualche altro segnale d’inversione arriva (pur tenendo conto dell’effetto delle congiunture elettorali) dalle operazioni di ricucitura del tessuto stradale locale cresciuto a segmenti separati e tratti non coordinati, caratterizzato da interruzioni della continuità, cambi di calibro, improvvise strozzature, mancanze di raccordi.

Va registrato che non appaiono, invece, segni di attenzione né ai possibili effetti positivi della “liberalizzazione” delle autostrade, con infittimento e apertura degli svincoli, né alla qualità del disegno delle strade che (come avviene in altri contesti) andrebbe affidato fin dall’inizio (fattibilità, tracciato, caratteristiche) a gruppi che, oltre all’ingegneria, comprendano altre discipline, dalla geologia alle scienze naturali, dall’archeologia al paesaggismo.

 

 

Le forme dell’insediamento e i modi della mobilità costituiscono aspra contraddizione (quasi, ormai, attrito) con la domanda di relazioni e di scambi interregionali e internazionali.

Il fatto è che questa nebulosa insediativa nel cuore del Nord Est occupa un posto strategico nella carta geografica e geopolitica europea con particolare propensione alle relazioni transalpine verso est (le Alpi, il grande sistema orografico che va dalla Provenza a Vienna e occupa più di 200.000 chilometri quadrati, è sempre stato caratterizzato da una significativa permeabilità). Tale tendenza ha avuto in questi anni, a partire della caduta dei muri e delle cortine, conferme clamorose ed è in vista di ulteriori sviluppi, in relazione all’imminente allargamento dell’Europa ad alcuni paesi dell’area slava e magiara.

Occorre sapere (e decidere) cosa si intende fare (modi, tempi, priorità, infrastrutture, cablaggi) per dare forma alle relazioni europee a sud del sistema alpino, in quello che i documenti europei chiamano corridoio Barcellona-Kiev. Occorre sapere (e decidere), in particolare, come questo corridoio attraverserà la nebulosa insediativa veneta e, di conseguenza, come si intende farlo incidere nella sua evoluzione. È questione non eludibile, che coinvolge robusti investimenti, che richiede grandi progetti pluriennali, e sulla quale non risulta ancora aperto il confronto d’idee. È questione storicamente assai complicata. L’infrastrutturazione ottocentesca imperial-regia (vista da Vienna) ha impostato l’intera rete ferroviaria e stradale del Veneto avendo come opzione strategica cruciale il destino della città che era stata capitale. L’ipotesi era di sostituire con moderne infrastrutture di terra la storica rete di vie d’acqua convergenti sulla dominante. Questa opzione ha creato nel territorio un’aberrazione funzionale, perché la linea “naturale” da est a ovest (la strada romana Postumia è del 148 a.C.) è stata subordinata a un ventaglio di infrastrutture centrato su una stazione di testa (persone e merci) posta nella città lagunare.

Nell’arco del XX secolo questa opzione non è mai stata ridiscussa, anzi è stata rafforzata dalle successive iniziative portuali, industriali e aeroportuali al bordo lagunare. Il tema è dunque la revisione, alla scala geografica, dell’opzione strategica. Si tratta di definire nel percorso delle infrastrutture principali est-ovest nell’area veneta, la posizione di un nodo intermodale (ferro e gomma in connessione con aria e acqua) che sia contemporaneamente: stazione passante per il corridoio ferroviario europeo a sud delle Alpi (auspicabilmente l’unica nel tratto da Verona all’area isontina per il trasporto alta velocità/alta capacità); ordinatore delle reti interregionali e metropolitane locali su ferro e su gomma; centro funzionale per l’intera nebulosa insediativa.

venerdì 7 giugno 2002

seminario in collaborazione

con la Fondazione Nord Est

Fondazione Benetton Studi Ricerche
/ en.fbsr.it stampa del 22 novembre 2024