Taneka Beri, villaggio nell’Atakora, Benin

Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino
ventiduesima edizione, 2011


veduta di Taneka Beri (fotografia di Hervé Brunon, dicembre 2010)

Motivazione della giuria

La Giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino ha deciso all’unanimità di dedicare la campagna culturale 2011, ventiduesima edizione, a un villaggio della regione dell’Atakora nel Benin. Il suo toponimo oscilla tra lo storico Seseirhà, “le case sovrapposte”, e il più recente Taneka Beri, “grande taneka”.
È composto da un migliaio di piccoli manufatti, stanze, granai, costruzioni di uso diverso, per lo più a pianta circolare e a tetto conico, con un diametro oscillante da due a tre metri, aggregati in piccoli insiemi (diecina, dozzina) intorno a uno spazio aperto, un cortile multifunzionale. Ognuno di questi piccoli insiemi dà forma a un’unità abitativa nella quale vive una famiglia allargata, appartenente al popolo Tangba, “grandi guerrieri”, chiamato anche popolo Taneka, “quelli delle pietre”.

Le unità abitative sono a loro volta variamente addensate in quattro parti riconoscibili nelle quali si articola il villaggio. Denominate quartieri in età coloniale, sono in realtà entità insediative (perhó) dotate di toponimi distinti, Satyekà, Tyaklerò, Galorhà, Pendolou, significativamente autonome fino a disporre di una propria autorità politica (sawa) e di propri sapienti-ierofanti-specialisti rituali. E sono proprio i luoghi del sacro, gli altari, le sepolture, gli spazi di danza rituale a segnare, con le onnipresenti pietre e i grandi alberi, l’articolazione del territorio occupato dal villaggio.
Su una popolazione complessiva dei Tangba (Taneka) stimata intorno ai trentamila individui, la comunità che vive stabilmente a Taneka Beri non supera le trecento persone, che nei dati ufficiali risultano però oltre novemila, poiché tutti coloro che lavorano e sono domiciliati altrove, in città o in campagna, dichiarano la loro appartenenza (residenza) al villaggio e vi ritornano in tutte le occasioni importanti e le cerimonie collettive. Questo senso di appartenenza è il risultato di un processo di lunga durata nel corso del quale si è costruita, per via pacifica, una comunità multietnica e plurilinguistica, con una articolata organizzazione dei rapporti interpersonali e intergenerazionali, fondata su un profondo e libero legame con la propria terra e la propria memoria.
Le quattro entità costitutive del villaggio sono disposte da nord a sud in sequenza lungo una linea leggermente arcuata per una lunghezza complessiva di circa ottocento metri e una larghezza media di circa duecento; ma la superficie considerata “dentro” al villaggio è assai più ampia ed è conterminata, fin dal XVIII secolo, da un piccolo muro di difesa dai razziatori di schiavi provenienti dal sud. Il villaggio fa parte di una costellazione di insediamenti che all’origine avevano carattere di rifugio, posti a un’altitudine di circa seicento metri s.l.m., in una formazione collinare elevata rispetto al territorio circostante, alla quale si sale da oriente dolcemente per circa quattro chilometri, muovendo dal centro comunale di Copargo, alla quota di circa cinquecento metri s.l.m.; mentre da occidente, provenendo da Taneka Koko (Dur) si incontra, disposta da nord-est a sud-ovest, la costa erta di una delle propaggini meridionali del massiccio dell’Atakora, un sistema orografico a circa cinquecento chilometri a nord della costa del Golfo di Guinea; massiccio dal quale le acque defluiscono a nord-est verso il Niger, a ovest verso il bacino del Volta, a sud nel fiume Ouémé, che nasce proprio tra Copargo e Taneka Beri e il cui bacino costituisce gran parte del territorio dell’attuale Repubblica del Benin.

 

L’antropologo italiano Marco Aime, che da oltre un quindicennio lavora in questa realtà, ha guidato un’incursione sperimentale di un gruppo di studiosi europei di paesaggio all’incontro con la forma e la vita del luogo, con la comunità che ne è la responsabile e con il suo patrimonio di idee e di cose. L’ipotesi è contribuire con un diverso punto di vista a un dialogo scientifico e a una comune riflessione sull’irriducibilità delle differenze rispetto a un mundus alter. Sono in questione il senso del tempo e dello spazio, il concetto di natura e le figure del mito e del sacro, la custodia della memoria, la trasmissione delle conoscenze, delle arti e dei mestieri, il governo dei beni comuni e le cure della casa.
Il gruppo di lavoro ha cercato di raccogliere segni e intercettare significati, attraverso l’inevitabile e consapevole filtro degli attrezzi conoscitivi e percettivi del nostro mondo, con l’impegno di dar conto degli interrogativi che un microcosmo altro continua a porre alla nostra cultura e alla nostra mentalità.
La documentazione audiovisiva eseguita e i preziosi appunti e rilevamenti raccolti dal gruppo di lavoro in situ, resi possibili dalla generosa e schietta collaborazione della comunità insediata e delle autorità civili e scolastiche locali, sono venuti ad arricchire le riflessioni compiute in varie occasioni precedenti intorno al tema del “villaggio” come microcosmo necessario, come misura imprescindibile di spazio e di tempo, come figura universale capace di assumere infinite variazioni, di istituire un rapporto sorprendente tra arcaismo e ipermodernità, di convocare domande fondative sul rapporto tra persona e luogo, tra luogo e comunità.
Le pertinenti ricerche bibliografiche, cartografiche e audiovisive, condotte prima e dopo il viaggio di studio, hanno mostrato la vastità e la profondità degli studi in questo campo, ma insieme il loro carattere ancora marcatamente settoriale. È così emersa l’utilità del dialogo e l’incoraggiamento a partecipare alle indagini con gli occhiali di discipline diverse, dalla geografia al paesaggio, dall’architettura al disegno artistico e artigianale.

Sulla base delle risultanze, la Giuria ha deciso all’unanimità di mettere al centro dell’attenzione un tema che appare fin troppo lontano e che invece costituisce un attualissimo e cruciale terreno esposto alle varie trappole nelle quali la cultura europea-occidentale è caduta nell’ultimo secolo. 
Non dovrebbe essere difficile, nel 2011, evitare l’infatuazione artistica e il messianismo salvifico che percorse il mondo dell’arte europea, e non solo, un secolo or è. Così come ci immaginiamo immuni dalle propensioni missionarie che, ancora alla fine degli anni venti del XX secolo, chiedevano se: «l’educazione e la trasformazione di una razza inferiore da parte di un popolo civilizzato» dovessero «essere compiute per mezzo dell’assimilazione o dell’adattamento».

 

Meno semplice è evitare la sostituzione di una società con quella che crediamo o che ci piace che sia, come è accaduto ad esempio per i Dogon, con l’inevitabile aberrazione ad uso turistico che vi si instaura. Ancor meno semplice è esprimere in tono non pedagogico, o peggio pietistico, la spontanea pulsione terzomondista. È davvero arduo evitare, nel nostro tempo, la trappola apocalittica, pur così seducente e attualmente pervasiva, apparentemente inarrestabile, intellettualistica, paralizzante, che vede ormai imminente, se non già arrivato, il giorno nel quale l’ultima delle culture che noi chiamiamo primitive sarà scomparsa dalla superficie della terra. Al contrario, l’unificazione di tutte le idee di comunità, di tutte le forme e le vite dei luoghi, ci appare ogni giorno meno agibile.
Il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, nella sua campagna del 2011, offre l’occasione di ragionare su Taneka Beri assumendo una adeguata dose del potente vaccino scoperto da Claude Lévi-Strauss alla metà del XX secolo. Per noi Race et histoire, del 1952, resta il saggio capitale dell’antirazzismo: non ci sono più né superiori né inferiori; non ci sono più stadi storici anteriori o posteriori. C’è solo l’irriducibilità delle differenze. Così, anche la trappola del localismo identitario, che tende a chiudere ogni società nel suo particolarismo, è messa fuori gioco.
Noi pensiamo che ogni microcosmo costituisca una parte infinitamente piccola di un universo infinitamente grande; che ogni società, per quanto minuscola, sia espressione di un “universale concreto” e che Taneka Beri e la sua comunità stiano di fronte a noi come uno degli infiniti modi con i quali si presenta questo “universale concreto”. In quanto forma vivente, radicalmente altra, questo luogo rimbalza sulla nostra cultura e ci aiuta a capire meglio noi stessi, a tentare di ricomporre tanti frammenti diversi nella visione unitaria di un mondo umano.
Con questo spirito e per queste ragioni, la Giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino consegna alla Municipalità di Copargo, in rappresentanza di tutta la comunità di cui fa parte Taneka Beri, il sigillo del riconoscimento e dell’impegno.

iniziative collegate

30 gennaio-26 febbraio 2012

mostra e incontro

Liceo Duca degli Abruzzi, Treviso

 

14 maggio - 26 giugno 2011

Taneka Beri, Benin

mostra di documenti e immagini


sabato 14 maggio 2011
ore 10-13
seminario pubblico
ore 17
cerimonia di consegna del Premio

 

lunedì 16 maggio 2011
il Premio incontra la scuola

 

vedi programma

pubblicazione

Taneka Beri,

dossier 2011

Fondazione Benetton Studi Ricerche
/ en.fbsr.it stampa del 22 novembre 2024