Alla scoperta della serietà del gioco

di Gherardo Ortalli


Una difficile scommessa e un chiaro progetto culturale
Quando nel 1987 fra gli impegni culturali che la Fondazione Benetton andava ad assumere prendeva corpo anche l’ipotesi di aprire un settore specifico dedicato alla storia del gioco in tutte le sue diverse espressioni, l’idea poteva apparire imprudente. Per una istituzione che intendeva muoversi in ambiti culturali di alto livello, mescolarsi con argomenti di quel genere rischiava di rivelarsi a dir poco fuori luogo. Era dunque una scommessa non da poco quella alla quale ci si impegnava, ma era al tempo stesso un progetto culturale assolutamente innovativo.

Alla base della scelta – sostenuta in primo luogo da Gaetano Cozzi che nel definire le linee culturali della Fondazione ebbe un ruolo di prim’ordine – stava la volontà di superare il curioso (e improprio) sillogismo che relega in un piccolo angolo il gioco e la giocosità con tutte le sue manifestazioni, ossia, per intenderci, la grande sfera della ludicità. Il ragionamento è facilmente riassumibile. Siccome – si dice – il gioco è strutturalmente altra cosa dal serio, il gioco non è serio e, dunque, non è serio nemmeno studiare il gioco e le sue diverse declinazioni. Ma il curioso sillogismo risulterà davvero traballante se si pone mente a come proprio nel gioco e per i giochi (quali che siano) si possano scatenare le passioni più accese, si brucino antiche fortune, si riescano a mobilitare masse ed energie enormi, si impegnino capitali persino fuori misura e via dicendo.

Recuperare agli studi di qualità l’importanza (la serietà) del gioco nel quadro della vita sociale, appariva di speciale rilievo, tenendo conto del ruolo crescente che oggi si riconosce alla ludicità nelle sue molteplici espressioni: dal generico tempo libero ai più complessi svaghi, dalle pratiche sportive alla festa, al gioco d’azzardo, allo spettacolo e altro ancora. Questa considerazione si accompagnava a un impegno culturalmente di assoluto rilievo: il recupero della unitarietà di fondo del “sistema ludico”, ossia di quel complesso di attività e comportamenti nei quali si esprime tutto un aggregato di pulsioni innate che spingono al rilassamento e alla distensione, ponendosi come naturale complemento alle fasi della fatica e dell’impegno. La scelta culturale di fondo appariva tanto più significativa in quanto collegata istituzionalmente a una importante realtà quale il gruppo Benetton che al diporto fisico nelle sue varie dimensioni – dal gioco dei ragazzi agli sport professionistici – ha dedicato una straordinaria attenzione. In sostanza, molte ragioni di vario carattere spingevano ad affrontare una scelta che si rivelava tanto difficile quanto ricca di stimoli.

 

Un rendiconto dopo un ventennio
Rispetto a quel 1987 di cui si parlava all’inizio, dopo un ventennio è doveroso tentare un rapido rendiconto per capire se e quanto le cose siano andate nella direzione prevista. In altri termini, si potrà ormai valutare se il progetto da cui si partiva avesse fondamento o se fosse soltanto qualcosa di campato per aria e in proposito il giudizio più chiaro sembra offerto da qualche novità lessicale che è venuta affermandosi. E ci riferiamo in specifico al termine stesso di “ludicità”.
Quando nel 1992, nel presentare il progetto della rivista «Ludica» (di cui si dirà poi qualcosa) di nuovo scrivevamo e parlavamo di “ludicità”, non si pensava di usare un termine inesistente. L’idea di un universo ludico meritevole di una definizione specifica non era allora ovvia come davamo per scontato e molto presto abbiamo dovuto prendere atto di come la lingua italiana non riconoscesse (e ancora oggi ufficialmente non riconosca) il termine/concetto “ludicità”, tanto che nella loro implacabile fermezza i correttori automatici dei sistemi di scrittura informatici continuano ostinatamente a segnalarne l’uso come scorretto evidenziandolo in rosso. Ma ormai è entrato nella pratica e vi si ricorre sempre più spesso.
Allo stesso modo, nelle traduzioni che impegnavano la redazione di «Ludica» ci si rendeva conto che il termine/concetto era – per così dire – ufficialmente inesistente pure in francese, o inglese, o spagnolo, o tedesco, o portoghese e via dicendo. Quando serviva, toccava volta per volta andare per approssimazione! Oggi, invece, si possono trovare usati anche dagli scrittori di madre lingua il portoghese ludicidade, o lo spagnolo ludicidad, o il francese ludicité, o (per la verità più a fatica) l’inglese ludicity e se l’uso è ancora piuttosto limitato agli scritti di storici, sociologi e antropologi, è facile prevedere che non tarderà molto nel trovare finalmente il suo legittimo posto in dizionari e vocabolari. Naturalmente non si pretende di avere “creato” un termine che sta conquistando crescenti spazi, ma certamente dalla Fondazione trevigiana è partita una spinta culturalmente decisiva al momento opportuno.
Senza voler pretendere troppo, è confortante che si venga affermando un aspetto fondamentale dell'opzione da cui partivamo: che al di là dell’esistenza di tanti giochi, passatempi o diporti fisici o d’intelletto si dovesse tenere conto di un “sistema” o “universo” nel quale pratiche e comportamenti ludici ben individuabili nella loro specificità trovano un basilare raccordo, nel segno del generale bisogno di rilassamento e distensione che interessa tanto l’individuo quanto la società nel suo complesso. Questo comporta, fra l’altro, che la corretta analisi e gestione dei singoli fenomeni non possa prescindere dalla conoscenza della dimensione collettiva che si esprime compiutamente proprio nel concetto di ludicità.

 

Il ruolo della Fondazione
Sulla scorta delle premesse sopra evidenziate, la prima iniziativa pubblica che concretamente prese corpo risale al maggio 1991, quando nella sede della Fondazione, in Treviso, ebbe luogo un incontro di studio sul tema “Giustizia, gioco, diporto nell’Italia di comune”, con la presentazione di saggi poi riuniti nel volume uscito nel 1993 con il titolo Gioco e giustizia nell’Italia di comune. Premessa di quell’incontro era, tuttavia, la già ben avviata raccolta delle norme sul gioco prodotte tra tardo medioevo e prima età moderna dai comuni italiani, in vista di un repertorio di centinaia di voci recuperate da un gruppo di giovani ricercatori e in corso di pubblicazione a cura di Alessandra Rizzi.
Con quelle prime iniziative la Fondazione cominciava a far sentire la sua voce trovando subito un ascolto per più aspetti superiore al previsto, riprova di come l’ambito d’intervento individuato fosse pronto per essere accolto. Era in sostanza iniziato il processo di “sdoganamento” di quella ludicità che cominciava a uscire dalla sfera grigia delle cose poco serie e comunque marginali per entrare nel campo dei temi meritevoli di grande attenzione. Da quel momento la Fondazione veniva gradualmente affermandosi quale punto di riferimento per le ricerche di storia del settore, scegliendo in particolare di coprire gli spazi più trascurati dalla ricerca, ossia quelli del passato (fino a tutto il secolo XIX) che sono la premessa e la matrice delle realtà odierne.
Le valutazioni che stiamo dando non peccano di eccessiva enfasi; del resto il ruolo culturale assunto è confermato dai rapporti che ben presto vennero a istituirsi, con collaborazioni che accreditarono la Fondazione anche a livello internazionale e in proposito conviene ricordare almeno l’incontro dedicato a “The Doctor on the Stage: performing and curing in early modern Europe/Il medico in scena: rappresentazione e guarigione in Europa nella prima età moderna” (sezione monografica di «Ludica», 5-6, 2000), organizzato nell’ottobre 1999 presso il Centro Italo-Tedesco Villa Vigoni a Loveno di Menaggio, con il Centro Italo-Tedesco stesso e con l’Institut für Geschichte der Medizin der Robert Bosch Stiftung di Stoccarda. In quella occasione il variopinto mondo dei guaritori di strada, dei saltimbanchi e degli imbonitori di fiera era analizzato con un’ottica assolutamente innovativa.
Nella stessa linea e sempre per esempio, va segnalata la partecipazione nell’agosto 2006 ad Helsinki al XIV Congresso Internazionale di Storia Economica. Per l’occasione si è organizzata una specifica sessione di lavoro avente come tema “Giocatori d’azzardo, imprenditori e burocrati di Stato. 
L’industria del gioco d’azzardo in prospettiva storica/Gambling, gamblers enterpreneurs and state bureaucrates. The Gambling industry in historical perspective
” (sezione monografica di «Ludica», 12, 2006). I contributi offerti da studiosi giunti oltre che dall’Italia anche da Austria, Finlandia, India, Spagna, Stati Uniti e Svizzera hanno messo in luce lo straordinario rilievo economico del gioco e in particolare dell’azzardo.
La possibilità di istituire rapporti ad ampio respiro, peraltro, più che dagli incontri di studio è comprovata dal ruolo assunto negli anni dalla rivista «Ludica» come punto di riferimento per le ricerche sulla ludicità a livello internazionale. Prima di parlarne, tuttavia, conviene guardare all’orizzonte italiano per ben capire quanto pesi oggi la Fondazione e subito vanno ricordate le borse di studio che annualmente si assegnano a giovani laureati nelle università italiane per tesi aventi come tema “il gioco e i giochi, attraverso i tempi, fino agli sport contemporanei”.
L’iniziativa era nata nel 1987-1988 per onorare il ricordo del giovane Stefano Benetton prematuramente venuto a mancare. Dall’anno 2001 le borse vennero intitolate a Gaetano Cozzi, nel frattempo scomparso, mentre il premio Stefano Benetton viene da allora assegnato sempre nell’ambito del gruppo Benetton dalla Biblioteca “Stefano Benetton” per tesi di argomento sportivo. Per valutare l’importanza delle borse di studio bandite dalla Fondazione basterà fornire qualche dato e così si ricorda che per le 90 assegnate fino al 2005 le tesi presentate al giudizio della commissione sono state ben 477, discusse in 35 diversi corsi di laurea o scuole di dottorato di ricerca e di specializzazione, presso 48 sedi universitarie.
Piace segnalare come per diversi giovani neolaureati la borsa è stata un concreto incoraggiamento a proseguire gli studi e in diversi casi i lavori proposti sono poi divenuti volumi o saggi in riviste specializzate. Inoltre, grazie a questa iniziativa la Fondazione ha oggi meglio di ogni altra realtà in Italia il polso di quanto si sta facendo nelle università italiane in materia di storia del gioco.

 

Gli impegni editoriali e la peculiarità di «Ludica»
Fra le tesi premiate con borsa di studio alcune sono in seguito uscite a stampa direttamente per intervento della Fondazione che peraltro rimane una struttura promotrice di proprie ricerche, sicché, naturalmente, il conferimento della borsa non impegna affatto alla pubblicazione. Tuttavia in qualche caso si è ritenuto opportuno sulla base di un preliminare lavoro di tesi, sostenere una ricerca svolta poi nel quadro degli impegni della Fondazione stessa, fino all’esito finale dell’edizione. Così è stato per gli studi di Federico Rausa su L’immagine del vincitore. L’atleta nella statuaria greca dall’età arcaica all’ellenismo, di Alessandra Rizzi su Ludus/ludere. Giocare in Italia alla fine del medio evo, di Andrea Nuti su Ludus e iocus. Percorsi di ludicità nella lingua latina, e, infine di Alessandro Arcangeli su Davide o Salomè? Il dibattito europeo sulla danza nella prima età moderna.
Altre ricerche sono state sostenute su temi di particolare rilievo, ma l’iniziativa che meglio rappresenta l’impegno e il ruolo della Fondazione nel settore degli studi sulla storia e la cultura del gioco è senz’altro il periodico che con il titolo di «Ludica» esce con cadenza annuale a partire dal 1995. L’unicità della rivista sta nel fatto di essere la sola che nello scenario internazionale affronta il sistema ludico nel suo complesso non limitandosi a sue espressioni specifiche. In genere l’attenzione viene rivolta a predefiniti eventi o fenomeni e così sono molte le riviste, anche prestigiose, che si occupano di storia di qualche settore specifico: con prospettive di largo respiro (per esempio, lo sport in generale), o in ambito più mirato (per esempio: le carte da gioco o gli scacchi o il turismo o i giochi con tavoliere e altro ancora). Fra tante iniziative del genere, nessuna oggi si muove nel presupposto di un articolato universo ludico che per essere davvero conosciuto richiede il tenere conto di molte interdipendenze e di complessi rapporti fra le sue variegate espressioni.
Per qualche anno «Ludica» non è stata sola in questo impegno e, nel quadro delle iniziative dell’Institut für Spielforschung und Spielpädagogik della Universität Mozarteum di Salisburgo si pubblicava «Homo Ludens. Der spielende Mensch», un qualificatissimo periodico esso pure a cadenza annuale che, sia pure con un’attenzione per certi aspetti più orientata verso i giochi di fortuna, presupponeva chiaramente l’unitarietà del sistema ludico. Dal 2000, tuttavia, «Homo Ludens» ha purtroppo cessato di uscire e ciò dimostra quanto sia complesso muoversi culturalmente ad alto livello in questo settore di studi.
L’essere oggi rimasti soli indica la complessità dell’impegno culturale a suo tempo assunto (o, se preferite, della scommessa allora fatta), ma ci sono poi i riscontri di segno positivo. Anche qui qualche cifra può servire e così ricorderemo come nei suoi primi undici numeri «Ludica» abbia avuto la collaborazione spontanea e in molti casi sistematica di ben 162 studiosi appartenenti a istituti di ricerca e universitari di ventuno diversi paesi: dalla Spagna all’Argentina, dall’Egitto agli USA, dal Belgio al Canada, a Israele o alla Romania, con contributi particolarmente numerosi (oltre che, com’è naturale, dall’Italia) da Francia, Germania, Gran Bretagna. La qualità della collaborazione internazionale è forse la testimonianza migliore di come il progetto che veniva messo a punto attorno al 1987 non fosse campato per aria e, per usare termini di gioco, si potrebbe aggiungere che la vecchia scommessa è finora risultata vincente.

Testo tratto dalla sezione Ludica
del «Bollettino della Fondazione Benetton Studi Ricerche», 4, 2007 (Rapporto di attività 1987-2007),
pp. 285-290.

Fondazione Benetton Studi Ricerche
/ en.fbsr.it stampa del 23 aprile 2024